Comunicare la malattia via WhatsApp? La Cassazione dice no

Pubblicato il 10 ottobre 2025

Le comunicazioni informali del lavoratore tramite applicazioni di messaggistica istantanea (WhatsApp) non hanno valore probatorio ai fini della qualificazione della malattia come particolarmente grave e non possono sostituire la certificazione medica richiesta dal contratto collettivo.

Cassazione: WhatsApp non vale per la malattia

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 26956 del 7 ottobre 2025, ha confermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore per superamento del periodo di comporto, chiarendo che le comunicazioni informali, come i messaggi inviati tramite WhatsApp, non sono idonee a dimostrare la natura e la gravità della malattia in assenza di documentazione medica certificata.

Il dipendente aveva sostenuto che alcune assenze per malattia non dovessero essere conteggiate, poiché riferite a una patologia particolarmente grave ai sensi dell’art. 63 del CCNL Logistica, Trasporto Merci e Spedizioni.

Le decisioni di merito  

La Corte d’Appello aveva respinto il ricorso del lavoratore, evidenziando che la patologia non rientrava nella categoria di “malattia particolarmente grave”, riservata ai casi che richiedono terapie salvavita o trattamenti assimilabili.

Nei certificati medici trasmessi non era indicata alcuna menzione di “patologia grave che richiede terapia salvavita” e i messaggi WhatsApp inviati all’azienda non avevano alcun valore probatorio, trattandosi di comunicazioni prive di validità medico-legale.

La pronuncia della Cassazione  

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore, confermando che:

Assenze per malattia: conta solo la documentazione ufficiale

La decisione n. 26956/2025 riafferma la necessità di una gestione formale e documentata delle assenze per malattia.

Il datore di lavoro può basarsi esclusivamente su certificazioni ufficiali, mentre i messaggi o le comunicazioni via WhatsApp, pur diffusi nella prassi quotidiana, non producono effetti giuridici.

La Cassazione richiama così lavoratori e aziende al rispetto delle procedure previste, a tutela della certezza dei rapporti e della correttezza documentale.

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