Controlli troppo invasivi sul dipendente malato? Licenziamento nullo

Pubblicato il 21 agosto 2025

No a controlli troppo invasivi sul piano della vita privata del lavoratore, disposti in violazione dei principi di proporzionalità e minimizzazione.

Il principio è stato confermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nel testo dell'ordinanza n. 23578 del 20 agosto 2025, con cui è stata confermata l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato a un lavoratore, con qualifica di dirigente, in costanza di malattia.

Controllo investigativo in malattia: entro quali limiti è legittimo

Il caso esaminato

Nella specie, al dipendente era stato contestato di avere più volte violato - mentre appunto era assente per malattia - l'obbligo di garantire la reperibilità nelle fasce orarie stabilite dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

La violazione era stata accertata attraverso un controllo investigativo, operato da parte di un’agenzia incaricata dal datore di lavoro.

La decisione della Corte d'Appello

La Corte d’Appello aveva ritenuto il recesso nullo in quanto "privo di giusta causa e di c.d. giustificatezza". In particolare, i giudici di gravame, avevano accolto il motivo di reclamo con cui il dirigente aveva lamentato la "inutilizzabilità del report dell'agenzia investigativa ai fini della prova del fatto contestato nella lettera di addebito disciplinare".

Secondo la Corte territoriale, il controllo era stato posto in essere al di fuori dei presupposti di legittimità, perché la società datrice di lavoro non aveva né allegato né provato circostanze oggettive tali da configurare un fondato o ragionevole sospetto di illecito commesso o in corso di commissione da parte del lavoratore, sussistente prima dell'avvio del controllo.

La sentenza di merito aveva ritenuto che i controlli effettuati fossero troppo invasivi rispetto alla vita privata del lavoratore, non giustificati al momento in cui erano stati avviati e attuati in modo eccessivo, senza rispettare i principi di proporzionalità e necessità previsti dalla legge.

In tale contesto, non era possibile configurare come prove (nemmeno come prove atipiche) elementi conoscitivi acquisiti in violazione di diritti fondamentali, come il diritto alla protezione dei propri dati personali.

Il ricorso della datrice di lavoro

La società datrice di lavoro si era rivolta alla cassazione, censurando la sentenza d’appello sotto vari profili, tra i quali la relativa nullità per omessa o contraddittoria motivazione nonché per violazione ed erronea applicazione degli artt. 2094, 2086, 2104 e 2106 c.c. nonché delle norme del CCNL applicabile (Pubblici esercizi).

In particolare, la ricorrente sosteneva la proporzionalità dell’attività investigativa in relazione al sospetto di condotta fraudolenta nonché l’infondatezza delle doglianze sulla violazione della privacy, trattandosi di attività svolte in luoghi pubblici e in orari di reperibilità.

Secondo la propria difesa, quello che era stato svolto a mezzo di Agenzia di investigazione era un controllo sul rispetto di un preciso obbligo di matrice contrattuale e non un "controllo difensivo".

In altri termini, si contestava la riconducibilità del controllo in esame alla categoria dei "controlli difensivi in senso stretto", atteso che il medesimo non era volto alla tutela del patrimonio né dell'immagine dell'azienda e non era un controllo sulla prestazione lavorativa del dipendente, bensì "un controllo svolto sulle obbligazioni accessorie derivanti dal contratto di lavoro".

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha giudicato infondati il motivi di ricorso, considerato che la sentenza impugnata era conforme, sul punto, ai principi espressi dalla medesima Cassazione in tema di controlli difensivi.

Controlli difensivi: i limiti fissati dalla giurisprudenza

Gli Ermellini hanno richiamato, sul punto, le motivazioni già espresse nella sentenza n. 18168 del 2023.

In tale decisione è stato evidenziato che il datore di lavoro può effettuare controlli, anche tecnologici, per proteggere beni aziendali o prevenire illeciti, ma solo se ha un sospetto fondato e se il controllo è proporzionato e rispetta la dignità e la privacy del lavoratore. Inoltre, i dati raccolti devono essere successivi al momento in cui nasce il sospetto.

I motivi del rigetto del ricorso

Nella specie, la Corte ha inoltre sottolineato come, indipendentemente dal fatto che il controllo potesse essere qualificato come difensivo, la doglianza sollevata non avrebbe comunque potuto condurre all’annullamento della sentenza impugnata.

La Corte territoriale, infatti, aveva ritenuto che la datrice di lavoro avesse svolto controlli eccessivamente invasivi della vita privata del lavoratore, realizzati in violazione dei principi di proporzionalità e minimizzazione.

Il bilanciamento tra interessi aziendali e diritti del lavoratore

Come ricordato dalla giurisprudenza, "in nessun caso può essere giustificato un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore" (Cass 25732/2021). Anche nel caso di controllo difensivo "in senso stretto" lecito, occorre comunque sia "assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore".

Elementi che hanno portato a ritenere il controllo illegittimo

Ebbene, nel caso esaminato, il giudizio di invasività si fondava sul fatto che il controllo fosse stato effettuato per ben 16 giorni, seppure non continuativi, durante il periodo natalizio, includendo anche le giornate di Natale e Santo Stefano, nonché la fine e l’inizio dell’anno. Il pedinamento era avvenuto su strade pubbliche e all’interno di locali aperti al pubblico, come ristoranti, ma aveva coperto quasi integralmente il tempo in cui il lavoratore si trovava fuori casa, dalle prime ore del mattino (talvolta dalle ore 7:00) fino alla sera (anche oltre le 20:00), andando quindi ben oltre le fasce orarie di reperibilità previste per la malattia.

Inoltre, il controllo aveva coinvolto non solo i familiari che erano con il dirigente (in particolare, il figlio), ma anche i terzi via via incontrati.

Di contro, al datore di lavoro sarebbe bastato richiedere la c.d. visita fiscale all'INPS, richiesta che avrebbe consentito di verificare l'eventuale violazione delle fasce di reperibilità.

Valutazione finale della Corte

Pertanto, la valutazione compiuta dalla Corte di merito non presentava vizi rilevanti sotto il profilo della legittimità, poiché riguardava un apprezzamento di fatto relativo alla natura e all’estensione della sorveglianza effettuata sul lavoratore, nonché al livello di interferenza nella sua vita privata.

Trattandosi di un giudizio riservato al giudice di merito, esso non era suscettibile di riesame in sede di legittimità da parte della Corte di Cassazione.

L'ordinanza, in breve

Sintesi del caso Questione dibattuta Soluzione della Corte di Cassazione
Un dirigente, assente per malattia, è stato licenziato per giusta causa dopo un controllo investigativo svolto dal datore di lavoro mediante agenzia privata, che ne avrebbe rilevato la mancata reperibilità. È legittimo il licenziamento disciplinare basato su controlli investigativi se questi risultano eccessivamente invasivi e non sorretti da un fondato sospetto? La Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento: i controlli sono leciti solo se proporzionati, giustificati da un sospetto concreto e rispettosi della privacy. Se mancano tali presupposti, i dati raccolti non sono utilizzabili.
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