Con l’ordinanza interlocutoria n. 32234, pubblicata l’11 dicembre 2025, la Corte di cassazione, Terza Sezione civile, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale che mette in discussione la recente modifica normativa introdotta dalla legge di bilancio 2025 in materia di contributo unificato.
Si tratta della misura secondo cui un procedimento civile non può essere iscritto a ruolo se non viene versato il contributo unificato minimo, pari a 43 euro, salvo i casi di esenzione previsti dalla legge.
La vicenda trae origine da un giudizio relativo al rilascio di un alloggio di edilizia residenziale pubblica. Dopo la soccombenza nei gradi di merito, i ricorrenti hanno proposto ricorso per cassazione. Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto di dover affrontare preliminarmente la questione procedurale in oggetto, che incide in modo decisivo sulla possibilità stessa di esaminare il ricorso.
La questione esaminata dalla Corte di cassazione, come anticipato, prende le mosse dall’articolo 1, comma 812, della legge n. 207 del 2024, disposizione che introduce una nuova condizione per l’iscrizione a ruolo dei procedimenti civili.
La norma stabilisce infatti che, al di fuori dei casi di esenzione espressamente previsti, la causa non può essere iscritta se non a seguito del versamento del contributo unificato nella misura minima prevista dalla legge, pari a 43 euro.
Secondo la Corte, tale previsione è applicabile anche al giudizio di cassazione, poiché il termine “causa” deve essere inteso come comprensivo del ricorso.
Ne consegue che il mancato pagamento del contributo determina inevitabilmente l’improcedibilità del ricorso, senza che l’ordinamento preveda strumenti alternativi o correttivi idonei a evitare tale effetto.
Secondo la Corte di cassazione, la disciplina introdotta sembra presentare profili di contrasto con principi costituzionali di rilievo fondamentale.
In particolare, l’obbligo di versare il contributo unificato quale condizione necessaria per l’accesso alla giurisdizione potrebbe comprimere il diritto di difesa, soprattutto nei confronti dei soggetti che non dispongono di adeguate risorse economiche.
Viene evidenziato, inoltre, che la norma non prevede alcuna deroga neppure a favore dei soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, determinando così una preclusione generalizzata all’azione giudiziaria.
Tale preclusione risulta giustificata da una finalità meramente fiscale, priva di collegamento con esigenze di funzionalità o razionalizzazione del processo.
Per la Cassazione, l’effetto complessivo della disposizione è quello di introdurre un ostacolo irragionevole all’esercizio del diritto di azione in giudizio.
La questione è stata dunque rimessa alla Corte costituzionale in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione. Sono coinvolti, in particolare, il principio di uguaglianza, il diritto di difendersi davanti a un giudice e il principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Per la Corte, anche un importo apparentemente modesto, come 43 euro, può costituire una barriera all’accesso alla giustizia, poiché ciò che conta non è solo il costo in sé, ma il principio secondo cui la tutela dei diritti non può essere subordinata a un pagamento imposto per finalità di gettito.
Ritenuta la questione rilevante e non manifestamente infondata, la Cassazione ha disposto la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Spetterà ora al Giudice delle leggi valutare se la norma sia compatibile con la Costituzione.
La futura decisione potrebbe avere ricadute significative sull’intero sistema della giustizia civile, incidendo sulla disciplina del contributo unificato e, soprattutto, sul delicato equilibrio tra esigenze fiscali e diritto dei cittadini ad accedere ai tribunali.
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