Patto di non concorrenza, nullo se il datore recede unilateralmente

Pubblicato il 02 settembre 2021

Non ha alcuna valenza il patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratore laddove il primo si scioglie in maniera unilaterale. Questo perché il comportamento del datore di lavoro è contro le norme imperative. Tra l’altro, l’inefficacia vige anche in costanza di rapporto di lavoro, poiché gli effetti del negozio sono già in corso e non si possono far cessare ex post in virtù di una condizione potestativa a favore del datore.

A specificarlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23723 dell’1 settembre 2021.

Patto di non concorrenza, la vicenda

Il caso riguarda una lavoratrice che, a causa della risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro da parte del datore, chiede un compenso di oltre 40 mila euro previsto dalla clausola di non concorrenza per i due anni successiva alla cessazione del rapporto, pattuita al momento dell’assunzione.

Il giudice di secondo grado afferma che la legittimità della clausola dovrebbe ritenersi nulla perché il patto è subordinato a una condizione potestativa: il datore può decidere se avvalersene o no alla fine del rapporto. Ma nella specie la lavoratrice non avrebbe patito alcun pregiudizio da indennizzare per la rinuncia a riorganizzare il proprio futuro professionale. E ciò perché il datore esercita il recesso ben sei anni prima della risoluzione del rapporto.

Patto di non concorrenza, quando è nullo?

Gli ermellini danno ragione alla lavoratrice. Nello specifico, la clausola del patto di non concorrenza è nulla laddove affida la risoluzione del patto all’arbitrio del datore di lavoro.

Infatti è da subito che il negozio impedisce al dipendente di progettare il suo futuro lavorativo: quindi, la compressione della libertà deve essere compensata ex articolo 2125 cod. civ. con un corrispettivo da parte dell’azienda che, tuttavia, finisce per essere escluso se al datore è concesso di liberarsi ex post dal vincolo.

La successiva rinuncia al patto, quindi, deve essere considerata tamquam non esset perché così facendo si finisce per esercitare la clausola nulla, tramite la quale il datore ritiene di potersi sciogliere unilateralmente dal patto in virtù di una condizione risolutiva affidata alla mera discrezionalità di una sola parte contrattuale.

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