Periodo di prova nei contratti a termine: come calcolare la durata

Pubblicato il 31 marzo 2025

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha pubblicato la circolare n. 6 del 27 marzo 2025, fornendo le prime indicazioni operative su alcune disposizioni del Collegato Lavoro e, in particolare, tra queste, sulla norma in materia di cui all’articolo 13 che individua i criteri da seguire per il conteggio della durata del periodo di prova nei contratti di lavoro a termine.

Periodo di prova nei contratti a termine: criteri di calcolo

Per i contratti di lavoro a termine instaurati dal 12 gennaio 2025, data di entrata in vigore legge 13 dicembre 2024 n. 203, il datore di lavoro è tenuto ad applicare le seguenti regole:

È quanto prevede l’articolo 7, comma 2, secondo periodo, del decreto Trasparenza (decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104), come integrato dall’articolo 13 del Collegato lavoro, che tuttavia fa salve “le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva.”

Il Ministero del lavoro, con la circolare n. 6 del 27 marzo 2025, si è spinto oltre la previsione normativa, chiarendo che per i contratti di lavoro a termine di durata superiore a 12 mesi, fatte salve – anche in questo caso - le più favorevoli previsioni della contrattazione collettiva, la durata massima del periodo di prova può superare anche i 30 giorni di lavoro effettivo.

In tutti i casi la “favorevolezza” rispetto alla previsione normativa, evidenzia il Dicastero, va valutata “alla luce del principio del favor praestatoris, per il quale in ambito lavoristico è da preferire l’interpretazione che accorda una maggiore tutela al lavoratore”. Pertanto “viene considerata più favorevole per il lavoratore una minore estensione del periodo di prova, a causa della precarietà che lo stesso comporta per il lavoratore”.

Non avendo il legislatore individuato esplicitamente il livello della contrattazione richiesto, aggiunge lo stesso Ministero, si deve aver riguardo al contratto collettivo applicato dal datore di lavoro.

I limiti massimi fissati per legge (15 e 30 giorni) non sono derogabili neanche dalla contrattazione collettiva.

Periodo di prova nei contratti a termine in sintesi

Periodo di prova nei contratti a termine: decreto Trasparenza e direttiva UE

L’articolo 7, comma 2, del decreto Trasparenza (decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104), integrato dalle disposizioni prima illustrate del Collegato lavoro, prevede inoltre che:

La disposizione de quo recepisce l’articolo 8 (Durata massima dei periodi di prova) della Direttiva (UE) 2019/1152 del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea, che così dispone: “2. Nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri provvedono affinché la durata di tale periodo di prova sia proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto per la stessa funzione e gli stessi compiti, il rapporto di lavoro non è soggetto a un nuovo periodo di prova.”

La stessa direttiva, nei considerando, ricorda che:

Periodo di prova nei contratti a termine: punti critici

Alla luce delle summenzionate previsioni normative, la durata del periodo di prova deve essere ragionevole ossia adeguata e proporzionale non solo alla durata prevista del contratto, ma anche alla natura dell’impiego. Il periodo di prova, ricorda la direttiva UE, deve consentire di verificare che i lavoratori e le posizioni per le quali sono stati assunti siano compatibili.

Determinare la durata del periodo di prova considerando come parametro di riferimento esclusivamente la durata del rapporto di lavoro è conforme alle direttive UE e alle disposizioni di legge, che invece richiedono che sia presa in considerazione anche la natura dell’impiego?

Inoltre, come chiarito anche dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 6 del 27 marzo 2025, le nuove regole si applicano salvo disposizioni più favorevoli contenute nella contrattazione collettiva.

Tradizionalmente, il principio del favor praestatoris guida l’interpretazione della norma in senso più favorevole al lavoratore. Di conseguenza, si ritiene che una minore durata del periodo di prova sia da considerarsi più vantaggiosa, poiché riduce la precarietà insita nella condizione del lavoratore in prova. Dello stesso orientamento è del resto anche il legislatore UE (“l’ingresso nel mercato del lavoro o la transizione verso una nuova posizione non dovrebbe implicare un lungo periodo di insicurezza).

Tuttavia, non è sempre detto che una riduzione del periodo di prova sia di per sé “più favorevole” per il lavoratore. È vero che il periodo di prova rappresenta un momento di incertezza, ma è altrettanto vero che una sua durata congrua può offrire una maggiore tutela occupazionale a lungo termine.

Un esempio utile in questo senso lo fornisce un’altra disposizione normativa introdotta dalla legge di Bilancio 2025 (L. 30 dicembre 2024, n. 207), che ha modificato i requisiti per l’accesso all’indennità di disoccupazione NASpI.

L’art. 1, comma 171, stabilisce che nei casi in cui la cessazione involontaria del rapporto sia preceduta da una cessazione volontaria nei 12 mesi precedenti, per accedere alla NASpI è necessario (dal 1° gennaio 2025) far valere almeno 13 settimane di contribuzione tra le due cessazioni..

In questo contesto, si vede chiaramente che una permanenza più lunga in un contratto, anche in periodo di prova, può favorire il raggiungimento di requisiti contributivi utili all’accesso a prestazioni di tutela del reddito. Un periodo di prova troppo breve potrebbe quindi compromettere la stabilità necessaria per accedere a strumenti fondamentali come la NASpI.

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