In materia di imposta di successione, ciò che fa nascere l’obbligo di pagare l’imposta è la chiamata all’eredità, non l’effettiva accettazione.
Di conseguenza, chi riceve un’eredità da una persona che, a sua volta, era stata chiamata ma non aveva ancora accettato, è comunque tenuto a pagare l’imposta anche per la successione precedente, in quanto la chiamata si trasmette secondo l’art. 479 del Codice civile.
Lo ha puntualizzato la Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con la sentenza n. 18252 del 4 luglio 2025.
La pronuncia trae origine da una complessa vicenda ereditaria: dopo la morte di una contribuente, avvenuta nel 2016, viene pubblicato il testamento che indica come erede il fratello della de cuius.
Tuttavia, quest’ultimo muore il giorno seguente, senza aver accettato l’eredità.
A seguito di tale decesso, i suoi figli vengono indicati come eredi nella dichiarazione integrativa di successione. L’Agenzia delle Entrate liquida l’imposta e notifica l’atto anche a questi ultimi, ritenendoli soggetti passivi in quanto chiamati all’eredità della contribuente originaria.
I destinatari contestano l’imposizione, affermando di non essere eredi diretti della de cuius, ma solo del padre, che non aveva mai accettato l’eredità.
Le Commissioni tributarie di merito accolgono le loro tesi.
L’Agenzia impugna la decisione in Cassazione, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 28 del D. Lgs. 346/1990 (Testo Unico sull’imposta di successione). In particolare, lamenta l’erronea esclusione della soggettività passiva ai fini dell’imposta in capo ai chiamati che non hanno formalmente accettato l’eredità.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del'Amministrazione finanziaria, fondando la propria decisione su un’interpretazione rigorosa e sistematica del Testo Unico sull’imposta di successione e richiamando dei principi già consolidati nella propria giurisprudenza.
La Corte, nella propria disamina, distingue chiaramente tra la chiamata all’eredità, che fa sorgere l’obbligo tributario, e la sua accettazione, rilevante solo sul piano civilistico.
Ai fini dell’imposta di successione, ciò che rileva non è l’effettivo acquisto dell’eredità da parte del soggetto, ma il semplice fatto che questi sia stato chiamato a succedere.
In altre parole, il legislatore fiscale individua il presupposto dell’obbligazione tributaria nella chiamata, non nell’accettazione, che resta un atto rilevante solo sul piano civilistico.
Di conseguenza, anche chi non ha ancora accettato l’eredità è comunque tenuto al pagamento dell’imposta, salvo che non abbia espressamente rinunciato.
Tale principio trova conferma nell’art. 7, comma 4, del D. Lgs. 346/1990, secondo cui la delazione ereditaria è sufficiente a far sorgere l’imposizione, e nell’art. 28, comma 2, che impone ai chiamati l’obbligo di presentare la dichiarazione di successione.
Un altro punto chiave è il richiamo all’art. 479 c.c. (sulla trasmissione del diritto di accettazione), secondo cui, se il chiamato all’eredità muore senza averla accettata, la delazione si trasmette ai suoi eredi. La delazione - si rammenta - è l'offerta dell'eredità al chiamato da parte dell'ordinamento giuridico. Si verifica con l'apertura della successione e attribuisce al chiamato il diritto di accettare o rinunciare all'eredità, senza che ciò comporti automaticamente l’acquisto dei beni ereditari.
La Cassazione ne trae una conseguenza fiscale diretta: anche gli eredi sono tenuti agli obblighi tributari derivanti dalla prima successione, salvo rinuncia.
La Corte, ciò posto, ha censurato le sentenze di primo e secondo grado (CTP e CTR Veneto) per avere equiparato la qualità di chiamato a quella di erede effettivo, escludendo l’obbligo fiscale per i figli del primo chiamato.
Un’impostazione ritenuta non conforme alla disciplina vigente, che valorizza il momento della chiamata quale fatto generatore dell’imposta.
Ai fini fiscali - ha concluso, pertanto, la Cassazione - rileva la sola chiamata all’eredità, che, nel caso in esame, si era verificata due volte, dando luogo a una doppia delazione e, di conseguenza, a una doppia imposizione tributaria, sia pure limitata ai beni effettivamente posseduti da ciascun chiamato.
Concludendo, la Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto:
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