Conversione del credito in capitale di rischio e risoluzione del concordato preventivo

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Conversione del credito in capitale di rischio e risoluzione del concordato preventivo

Il Tribunale di Reggio Emilia (sent. 16 Aprile 2014) ha affrontato il problema posto dalla conversione del credito in azioni, come prevista dalla proposta del piano nel concordato preventivo, con particolare riferimento all’efficacia satisfattiva della stessa nel caso di sopravvenuta risoluzione del concordato. Nella specie, la proposta di concordato prevedeva il soddisfacimento del credito, quanto al 70%, mediante conversione in azioni, assegnate a seguito dell’aumento di capitale realizzato mediante detta conversione. Approvata la proposta ed omologato il concordato, veniva eseguito l’aumento di capitale strumentale alla conversione dei crediti, con conseguente attribuzione delle azioni al creditore. Successivamente, a seguito dell’inadempimento delle obbligazioni assunte con il concordato, lo stesso veniva risolto ex art. 186 l.fall.

Nel prosieguo del giudizio si poneva il problema di stabilire se, nel successivo fallimento, il creditore dovesse essere ammesso al passivo per il credito nell’im- porto anteriore all’operazione di conversione, ovvero in quello minore corrispondente alla quota non convertita in capitale di rischio. Il Tribunale ha accolto la seconda opzione e ciò ha fatto: a) premettendo che l’accettazione della proposta concordataria non costituisce remissione del debito per la parte convertita in capitale di rischio e che la retroattività degli effetti della risoluzione ex art. 196 l.fall. comporta, in linea generale, la spettanza del credito nell’importo originario (e cioè nella misura non risultante dalla falcidie concordataria), assistito dalle originarie garanzie; b) affermando che, tuttavia, la conversione del credito in capitale di rischio, anche alla luce della regola della stabilità delle modifiche societarie “destinate a dare vita ad una situazione nuova e spesso irreversibile”, co- stituisce una datio in solutum (art. 1197 c.c.), in virtù della quale l’obbligazione originaria deve ritenersi adempiuta (per la parte del credito convertita) con la mera attuazione dell’operazione di aumento del capitale sociale e con l’assegnazione delle azioni, che ne determinano l’estinzione con efficacia satisfattiva.

I primi commentatori (Luigi Salvato,”Questioni in tema di conversione del capitale di rischio nel concordato preventivo”, in Il Fallimento, 1/’15, pag. 62 e ss.) si sono concentrati sugli  effetti della risoluzione del concordato con riferimento alla sorte degli atti compiuti in esecuzione del concordato, fra cui appunto quelli di ristrutturazione del debito mediante la conversione dei crediti in capitale di rischio.

Gli effetti che conseguono alla definitività del decreto di omologazione ex art. 180 l.fall. non si esauriscono necessariamente nella mera riduzione quantitativa del debito e possono consistere in una varietà di effetti modificativi delle originarie obbligazioni del debitore (dilatori, remissori o altrimenti modificativi delle stesse) non riconducibili alla formula “effetto esdebitatorio”. Indipendentemente dall’esatta natura giuridica degli stes- si (45), si tratta di effetti di natura costitutiva, che vanno identificati avendo riguardo al contenuto della proposta.

Tra detti effetti, salvo che la proposta preveda l’assunzione del concordato con liberazione immediata del debitore, non rientra, dunque, quello liberatorio. La produzione di questo ulteriore effetto è, infatti, condizionata all’adempimento delle obbligazioni concordatarie e, conseguentemente, nell’identificazione del momento in cui si perfeziona, rileva il contenuto della proposta omologata.

L’eventuale, successivo, inadempimento degli obblighi assunti con il concordato può comportarne la risoluzione, secondo una disciplina che - sotto il profilo sostanziale - è in larga misura affine a quella civilistica, in considerazione della natura tendenzialmente privatistica del concordato preventivo. La regolamentazione della risoluzione per inadempimento  impone di avere riguardo al contenuto della proposta, allo scopo di accertare se il concordato sia stato strutturato secondo il tradizionale schema previsto in ambito fallimentare, ovvero sia stato invece conformato mediante l’utilizzo di uno schema riconducibile alla datio in solutum, in grado di determinare la coincidenza dell’effetto satisfattivo con l’effetto estintivo dell’obbligazione originaria.

Accertato l’inadempimento delle obbligazioni concordatarie, la sentenza che pronuncia la risoluzione ha portata costitutiva - estintiva sul piano sostanziale e determina l’eliminazione degli effetti esdebitatori e/o modificativi conseguenti all’omologazione del decreto ex art. 180 l.fall. e, quindi, dovrebbe operare retroattivamente, determinando il ripristino della situazione antecedente.

La riconduzione della risoluzione del concordato preventivo al genus dell’istituto civilistico deve, peraltro, tenere conto della circostanza che essa incide sugli effetti prodotti da un precedente provvedimento giudiziale, tendenzialmente stabile, nel- la cui esecuzione è stata svolta una complessa attività. Di qui il problema della sorte degli atti compiuti in funzione della procedura, quali le garanzie prestate dai terzi per gli adempimenti degli obblighi, ovvero degli atti posti in essere dopo l’omologazione, nonché della stabilità dei pagamenti ricevuti dai creditori.

La regola generale che governa gli effetti della risoluzione è che essa opera in senso sfavorevole al debitore, mentre restano salvi i risultati positivi raggiunti a favore dei creditori. I creditori, ex art. 140, comma 3, l.fall. (applicabile al concor- dato preventivo) trattengono quanto ricevuto in esecuzione del concordato risolto e conservano le garanzie; gli atti legittimamente posti in essere in esecuzione del concordato sono intangibili, anche in coerenza con l’esigenza di garantire la so- luzione della crisi dell’impresa e di tutelare l’affidamento riposto da terzi e creditori sugli atti legittimamente compiuti.

È in applicazione di tale regola che, qualora dopo l’omologazione sia stato eseguito l’aumento di capitale sociale previsto dalla proposta ai fini della conversione in capitale di rischio dei crediti, lo stesso è intangibile. La domanda posta nel giudizio è, però, se, una volta pronunciata la risoluzione del concordato omologato, permanga anche l’effetto satisfattivo. A questa domanda il Tribunale ha offerto risposta affermativa, riconducendo la fattispecie alla datio in solutum, in virtù di una ricostruzione che appare corretta.

In virtù dell’art. 1197, comma 1, c.c., il debitore “può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta”, se il creditore lo consenta. L’art. 160, comma 1, lett. a), l.fall. dispone, a sua volta, che la proposta può prevedere “la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma [...] ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni” con formulazione che, anche sotto il profilo letterale, depone per la riconducibilità di tale meccanismo satisfattivo del credito alla fattispecie prevista dalla norma civilistica. Questa conclusione è, tuttavia, insufficiente a far ritenere che l’effetto satisfattivo prodotto dall’esecuzione dell’operazione di conversione del credito sia anche connotato dal carattere della stabilità, in grado di renderlo insensibile alla sopravvenuta risoluzione del concordato.

L’effetto satisfattivo della datio in solutum incontra precisi limiti. Qualora in luogo dell’adempimento sia ceduto un credito, esso è, infatti, condizionato alla riscossione dello stesso, salvo che risulti una diversa volontà delle parti (art. 1198 c.c.). Inoltre, nel caso in cui la “prestazione consiste nel trasferimento della proprietà o di un altro diritto, il debitore è tenuto alla garanzia per l’evizione e per i vizi della cosa secondo le norme della vendita, salvo che il creditore preferisca esigere la prestazione originaria e il risarcimento del danno” (art. 1197, comma 2, c.c.).

Da un lato, tuttavia,  la partecipazione sociale non costituisce un credito in relazione al quale possa essere invocato l’art. 1198 c.c., con la conseguenza che l’estinzione del credito non può ritenersi assoggettata alla condizione sospensiva del pagamento.

Dall’altro, l’inadempimento che comporta la risoluzione del concordato neanche è riconducibile all’art. 1197, comma 2, c.c.

La considerazione che la conoscenza dei dati rilevanti ai fini del valore della partecipazione è garantita dagli atti nei quali si snoda la procedura e che il debitore può non avere assunto un preciso impegno sul punto  esclude, in ogni caso, che ciò possa garantire la reviviscenza del credito.

Sotto altro profilo, neanche è possibile sostenere che l’aumento di capitale sia condizionato all’adempimento del concordato, quindi, alla mancata risoluzione dello stesso. Se, infatti, è ammissibile l’apposizione di un termine iniziale o di una condizione sospensiva all’atto di sottoscrizione di un aumento di capitale, non è, invece, possibile assoggettare la delibera di aumento ad una condizione risolutiva.

Dirimente, nel senso della stabilità dell’aumento di capitale, è infine la nuova regolamentazione delle società di capitali. La riforma del diritto societario ha, infatti, privilegiato la stabilità delle delibere assembleari, che risulta rafforzata proprio per le delibere di aumento del capitale sociale. Le operazioni societarie deliberate ed eseguite dopo l’omologazione del concordato, in funzione ed at- tuazione della relativa proposta, determinano una situazione nuova ed irreversibile che, anche in caso di risoluzione o di annullamento dello stesso, sono intangibili, in virtù della specialità della disciplina societaria che le regola. L’operazione di aumento di capitale è stata, infatti, perfezionata quando la procedura era formalmente chiusa e, quindi, risultano applicabili le regole generali, con conseguente intangibilità della relativa delibera nel caso di successiva risoluzione del concordato preventivo.

La risoluzione neanche può produrre effetti limitati, nel senso di comportare esclusivamente l’inefficacia della falcidia concordataria che ha colpito i creditori i quali hanno visto convertito il credito in capitale di rischio, nonostante la stabilità della delibera di aumento del capitale sociale.

Un tale risultato va senz’altro escluso, qualora il piano espressamente preveda l’adempimento attraverso una datio in solutum, nei termini sopra precisati

Se la conclusione del Tribunale appare, dunque, corretta, non è sbagliato sostenere che la vera questione da risolvere sia l’ammissibilità di un concordato strutturato che rischi di diventare aleatorio. Se così fosse, l’alea che lo connota potrebbe, infatti, costituire un dato patologico da solo sufficiente a determinarne l’inammissibilità, tenuto conto della manifesta irragionevolezza di una soluzione che imponga a maggioranza un’alea in grado di vanificare i diritti di alcuni creditori.

Qualora si reputi, invece, ammissibile una tale strutturazione del concordato preventivo, dovrebbe peraltro ritenersi che l’espansione della sua connotazione privatistica, in considerazione degli interessi coinvolti, vada necessariamente bi- lanciata da un penetrante controllo, sia pure esterno e di legittimità, del giudice in ordine all’esistenza, veridicità, congruità e correttezza delle informazioni, a garanzia della trasparenza ed attendibilità delle stesse.

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