Fallimento dopo falso in bilancio? Bancarotta fraudolenta impropria

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Fallimento dopo falso in bilancio? Bancarotta fraudolenta impropria

L'ipotesi di falso in bilancio seguita dal fallimento della società integra la fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario.

Essa si distingue sia dal falso in bilancio previsto dall'art. 2621 c.c., reato sussidiario punito a prescindere dall'evento fallimentare, sia dalla bancarotta documentale propria, concernente ipotesi di falsificazione di libri o altre scritture contabili.

Nella predetta fattispecie, in particolare, una volta verificatosi il fallimento, il fatto di cui all'art. 2621 c.c. è assorbito nel reato di bancarotta impropria, mentre concorre con il delitto di bancarotta fraudolenta documentale specifica, se integrato da condotte diverse dalla falsificazione.

Bancarotta fraudolenta impropria da reato societario: reato complesso

Come riconosciuto dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza di legittimità, inoltre, il delitto di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario è strutturato come reato complesso, rispetto al quale un reato societario, tra quelli espressamente previsti dal legislatore ed assunto come elemento costitutivo, deve essere causa o concausa del dissesto societario, pur dovendosi individuare il momento di consumazione del reato nella dichiarazione di fallimento.

I fatti di falso in bilancio seguiti dal fallimento della società, infatti, non costituiscono un'ipotesi aggravata del reato di false comunicazioni sociali ma integrano un autonomo reato.

Quando si configura il reato

Del reato di bancarotta impropria da reato societario - ha precisato la giurisprudenza -  risponde l'amministratore che:

  • attraverso mendaci appostazioni nei bilanci, simuli un'inesistente stato di solidità della società, consentendo così alla stessa di ottenere nuovi finanziamenti bancari ed ulteriori forniture, agevolando, in questo modo, l'aumento dell'esposizione debitoria della fallita;
  • esponga nel bilancio dati non veri al fine di occultare l'esistenza di perdite e consentire, quindi, la prosecuzione dell'attività d'impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori negli esercizi successivi.

Chi ne risponde

Per tale fattispecie è pacifica la natura di reato proprio: l'art. 223, comma 2, Legge fallimentare riconduce le condotte illecite previste agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite.

Ne discende che il componente del Cda di una società risponde del concorso nella bancarotta impropria da reato societario per mancato impedimento dell'illecito anche quando egli sia consapevolmente venuto meno al dovere di acquisire tutte le informazioni necessarie all'espletamento del suo mandato.

Per quel che riguarda l'elemento soggettivo del reato, infine, il dolo richiede una volontà protesa al dissesto, intesa non già quale intenzionalità di insolvenza ma come consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico.

Amministratore dimissionario assente all'ok al bilancio? Condanna annullata

E' tutto quanto evidenziato dalla Corte di cassazione con sentenza n. 3197 del 26 gennaio 2024, nel pronunciarsi sul ricorso promosso dall'ex consigliere di amministrazione di una Srl contro la condanna impartitagli in relazione al fatto di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali ascrittogli a seguito del fallimento della società.

All'imputato era stato contestato di aver concorso nel cagionare il dissesto della società fallita, mediante la sovrastima delle rimanenze finali rilevante nel bilancio. Secondo l'ipotesi accusatoria, nel bilancio erano stati esposti fatti materiali non rispondenti al vero, al fine di occultare le perdite e proseguire l'attività imprenditoriale, in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, rappresentando un apparente e fittizio stato di benessere della società, in modo da ritardare la dichiarazione di fallimento.

L'ex amministratore si era rivolto alla Suprema corte, lamentando, tra i motivi, vizio di motivazione, atteso che la Corte territoriale - secondo la sua difesa - non aveva fornito risposta alla questione dallo stesso sollevata circa il fatto che egli non poteva considerarsi soggetto attivo del reato: non solo non aveva partecipato all'assemblea di approvazione del bilancio ma, in quel momento, non era nemmeno più componente del Cda in quanto si era precedentemente dimesso.

Egli, peraltro, come dimostrato tramite perizia, era stato escluso, di fatto, dalla gestione della società dopo la morte del dominus dell'impresa e il subentro della moglie e del figlio di questi, nominati nel Consiglio di amministrazione.

Ebbene, il Collegio di legittimità, applicando i principi sopra richiamati, ha giudicato fondato il motivo di doglianza sollevato dal ricorrente in ordine alla riconducibilità della condotta illecita al medesimo.

Decisiva, in particolare, è stata considerata la posizione rivestita dal deducente al momento di approvazione del bilancio incriminato.

Sul punto, gli Ermellini hanno evidenziato come il reato di false comunicazioni sociali - che, come detto, costituisce un elemento della struttura complessa del reato di bancarotta impropria da reato societario - si consuma nel luogo e nel momento in cui si riunisce l'assemblea e il bilancio viene illustrato ai soci.

Era in questo momento, del resto, che era stata effettuata la contestata sovrastima delle giacenze finali che aveva poi celato al reale situazione di crisi.

Senza contare che il ricorrente si era già dimesso da componente del Cda.

Vizi motivazione da correggere

Tali aspetti non erano stati minimamente considerati dalla Corte d'appello che, in definitiva, aveva attribuito all'uomo il fatto di bancarotta impropria sulla base del suo ruolo di amministratore di diritto e di consigliere delegato, non ritenendo dimostrata la circostanza che egli, dipendente storico della compagine che controllava la Srl, avesse agito come mera testa di legno della famiglia.

I giudici di merito, inoltre, avevano dedotto la sussistenza dell'elemento psicologico del reato in contestazione sulla base di una maggiore plausibilità della tesi accusatoria piuttosto che di una specifica ricostruzione delle risultanze processuali.

Rispetto a tali punti, in definitiva, la sentenza di merito è stata annullata, con rinvio alla Corte d'appello, al fine di colmare i rilevati difetti motivazionali.

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