La fallibilità delle società cooperative

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La fallibilità delle società cooperative

La S.C. torna di nuovo ad esaminare la delicata questione della fallibilità delle Cooperative, concentrandosi sulla rilevanza del concetto mutualistico e sulla compatibilità dello stesso con lo scopo di lucro. (1)

Per la L. Fall., art. 1, sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, come parimenti prevede l'art. 2221 c.c., che fa salve le disposizioni delle leggi speciali.  L'art. 2545 terdecies, comma 1, seconda parte (come già l'art. 2540, nel testo anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003) ammette il fallimento delle cooperative che svolgano attività di imprenditore commerciale, stabilendo che esse sono sottoposte "anche" a fallimento, oltre che a liquidazione coatta amministrativa, secondo il criterio discretivo della prevenzione (criterio richiamato pure dalla L. Fall.art. 196).

Se l'impresa cooperativa, per le disposizioni sopra richiamate, può essere soggetta a fallimento in caso d'insolvenza, al fine di giungere all'esclusione di quel regime potrebbe rilevare o la natura agricola dell'impresa, o la mutualità della stessa, tale da escludere la natura di impresa commerciale.
Sotto il primo profilo, le cooperative agricole sono individuate secondo i criteri di cui agli artt. 2195 e 2135 c.c., atteso il richiamo ad essi implicitamente operato dagli artt. 2221 e 2545 terdecies c.c. e L. Fall.art. 1.

Nel caso sottoposto al vaglio del giudice di legittimità la società ricorrente aveva negato la qualità di imprenditore fallibile, per avere essa finalità mutualistiche.

La Corte, tuttavia, ha sottoposto a considerazioni critiche questa prospettazione.

Da un lato, l'impresa commerciale non postula il perseguimento di un lucro soggettivo e dall'altro lato, la cooperativa che abbia fini mutualistici (anche a mutualità prevalente secondo la nozione introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003) non è per ciò solo sottratta a fallimento.

Per la qualificazione di un'impresa come commerciale, ciò che rileva, accanto all'autonomia gestionale, finanziaria e contabile, è invero il perseguimento di un c.d. lucro oggettivo, ossia il rispetto del criterio di economicità della gestione, quale tendenziale proporzionalità di costi e ricavi, in quanto questi ultimi tendano a coprire i primi (almeno nel medio-lungo periodo). La nozione di imprenditore ai sensi dell'art. 2082 c.c. va intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all'attività economica organizzata che sia ricollegabile a un dato obiettivo inerente all'attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, il quale riguarda il movente soggettivo che induce l'imprenditore ad esercitare la sua attività (cfr., ad esempio, Cass. 5 giugno 1987, n. 4912, con riguardo a società esercente in regime di concessione un'attività di trasporto, sebbene assoggettata ad un peculiare regime di prezzi e costi).


Persino il fine altruistico, infatti, non pregiudica il carattere dell'imprenditorialità dei servizi resi, qualora quest'ultimi vengano organizzati in modo che i compensi per essi percepiti siano adeguati ai relativi costi, onde si è affermato la natura commerciale di un'attività, anche se svolta in modo che i compensi non eccedano i costi, dato che ai fini della valutazione del carattere imprenditoriale di un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o servizi rimangono giuridicamente irrilevanti sia il perseguimento o no di uno scopo di lucro, sia il fatto che i proventi siano destinati ad iniziative connesse con gli scopi istituzionali dell'ente (2).

 Pertanto, anche la natura commerciale dell'attività svolta da una società cooperativa deriva esclusivamente dalla circostanza obiettiva che essa eserciti (o abbia esercitato) questo tipo di attività. L'indagine sull'accertamento del predetto scopo, quindi, non può ritenersi formalmente preclusa dal fine mutualistico della cooperativa, posto che l'attività commerciale non è incompatibile con la finalità mutualistica.
Non è, invero, il fine mutualistico che esclude in sè la natura di imprenditore commerciale di una cooperativa, dato che l'art. 2545 terdecies, come prima l'art. 2540 c.c., ne prevede espressamente la dichiarazione di fallimento, così riconoscendo che queste possono svolgere anche un'attività commerciale (3).


La S.C. ha precisato da tempo (4) come "lo scopo mutualistico proprio delle cooperative può avere gradazioni diverse, che vanno dalla cosiddetta mutualità pura, caratterizzata dall'assenza di qualsiasi scopo di lucro, alla cosiddetta mutualità spuria che, con l'attenuazione del fine mutualistico, consente una maggiore dinamicità operativa anche nei confronti di terzi non soci, conciliando cosi il fine mutualistico con un'attività commerciale e con la conseguente possibilità per la cooperativa di cedere beni o servizi a terzi a fini di lucro".

Dunque, l'esercizio di un'impresa commerciale ed il relativo intento di lucro non sono inconciliabili con lo scopo mutualistico proprio della cooperativa, essendosi ormai "superata l'immedesimazione tra società e scopo di lucro da un lato e cooperativa ed interesse mutualistico dall'altro. Dopo aver ammesso che vi sono società senza scopo di lucro e consorzi in forma societaria (art. 2615 ter come modificato dalla L. 10 maggio 1976, n. 377), occorre rilevare come la società cooperativa può ben avere anche uno scopo di lucro" (5).

In coerenza con tali principi la Corte di Cassazione ha qualificato come imprenditore commerciale la cooperativa edilizia che venda a terzi gli alloggi realizzati, potendo la natura commerciale dedursi dalla presenza di elementi anche presuntivi che evidenzino lo svolgimento da parte della cooperativa di "attività speculativa esorbitante dal suddetto scopo" (6), o che ceda gli alloggi sul mercato (7) o che produca spettacoli teatrali con utilizzazione delle prestazioni artistiche dei soci, destinando gli utili ai medesimi quale riserva disponibile e a fondi di assistenza e beneficenza per i soci (8).


Dal suo canto, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea ha affermato, nell'ambito del diritto dell'Unione in materia di concorrenza, come la nozione di "impresa" comprenda qualsiasi entità che eserciti un'attività economica, indipendentemente dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento, ed intesa tale attività come quella "consistente nell'offrire beni o servizi in un determinato mercato".

Come si è ritenuto per il consorzio, il quale deve considerarsi imprenditore perché esercita una fase dell'attività delle imprese consorziate o un'impresa ausiliaria, pur costituendosi fra le singole imprese rapporti associativi di tipo mutualistico, da cui derivano vantaggi realizzati grazie all'organizzazione comune (9), e come per le associazioni e le fondazioni, che possono esercitare attività d'impresa, pur mantenendo come fine il perseguimento di uno scopo altruistico (10), così anche con riguardo alla società cooperativa può dirsi che lo scopo di lucro non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore, essendo individuabile l'attività di impresa, tutte le volte che sussista una obiettiva economicità dell'attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi.

Tale requisito può ben essere presente anche in una società cooperativa, che pure operi solo nei confronti dei propri soci:  in tal caso, essa si assoggetta allo statuto dell'impresa, che comprende il fallimento, quale strumento di soluzione e superamento dell'insolvenza che abbia origine in un'iniziativa imprenditoriale.


In conclusione, lo scopo mutualistico di una società cooperativa non è inconciliabile con quello di lucro, quale obiettiva economicità della gestione, potendo i due fini coesistere ed essere rivolti al conseguimento di uno stesso risultato: pertanto, ai fini dell'applicabilità dell'art. 2545 terdecies cod. civ., che prevede la possibilità del fallimento delle cooperative, per l'accertamento della sussistenza del fine predetto occorre avere riguardo alla struttura ed agli scopi di essa.


Nel caso esaminato dalla S.C. la cooperativa si inquadrava nell'ambito della disciplina comunitaria (Regolamenti reg. CE n. 2200/1996, ed in seguito n. 1182/2007) volta a favorire, mediante rapporti di tipo associativo, la concentrazione dell'offerta di prodotti agricoli, al fine di controbilanciare l'insufficiente dimensione delle imprese agricole rispetto alla controparte industriale.

Di qui, le disposizioni volte a promuovere le c.d. OPA, organizzazioni di produttori in agricoltura.


Sebbene tali organizzazioni di produttori siano costituite anche nel perseguimento di fini strategici comunitari, esse operano mediante l'immissione dei prodotti sul mercato.
Al riguardo, sia pure con riferimento al profilo del credito del socio coltivatore diretto verso la cooperativa che commercializza il prodotto agricolo finito conferito dai soci, la Corte di Cassazione (11), nell'escludere che esso goda del privilegio di cui all'art. 2751 bis c.c., n. 4, ha avuto occasione di sottolineare la natura di questo rapporto, in cui il socio conferisce prodotti alla cooperativa (in quel caso, una cooperativa vitivinicola a r.l.) mediante un peculiare negozio, in cui la compravendita viene a innestarsi su di un autonomo contratto associativo. Tale vincolo, da un lato, obbliga il coltivatore diretto al conferimento dei prodotti per il perseguimento dello scopo sociale e, dall'altro, lo rende partecipe dello scopo dell'impresa collettiva facendogli assumere una quota del rischio di impresa e attribuendogli correlativamente una serie di poteri e diritti (di concorrere alla formazione della volontà della società, di controllo sulla gestione sociale, il diritto ad una quota degli utili) e specifici vantaggi, fra cui in particolare quello di poter collocare la propria merce sul mercato in condizioni più favorevoli: da qui la decisione della Corte, fondata sul presupposto della natura imprenditoriale della cooperativa, di negare un inammissibile soddisfacimento preferenziale sul patrimonio della società. 

In conclusione, quello che conta, al di là dello scopo mutualistico, è  la sussistenza di positivi indici della natura commerciale dell'attività svolta, consistenti, ad esempio,  nella forma legale di s.p.a., nell'esistenza di una partita i.v.a., nell'oggetto sociale volto alla commercializzazione verso terzi di prodotti agricoli conferiti dai soci, dei quali la società incassa prezzo, nell'esistenza di un rapporto di lavoro con un dipendente.


Ed anche il fatto del versamento integrale ai soci del prezzo ricavato dalla vendita dei loro prodotti, non è a tal fine sufficiente, perché non prova che tutte le operazioni di vendita ed incasso, eseguite dalla società, siano sempre state seguite dal completo versamento del denaro ai soci.


 


(1) Cass. 6835/2014

(2)Cass., sez. lav., 19 agosto 2011, n. 17399, sull'attività di gestione di una struttura alberghiera da parte di un ente religioso; Cass., sez. 3, 19 giugno 2008, n. 16612

(3)Cass., sez. 1, 28 luglio 1994, n. 706

(4)Cass., sez. 1, 8 settembre 1999, n. 9513

(5)Cass., sez. 1, 16 maggio 1992, n. 5839; Cass. Sez. 5, 9 ottobre 2000, n. 13423

(6)Cass., sez. 1, 16 maggio 1992, n. 5839

(7)Cass., sez. 1, 28 luglio 1994, n. 7061

(8)Cass., sez. 1, 18 giugno 1980, n. 3856

(9)in tema di fallimento del consorzio,  Cass., sez. 1, 3 giugno 2010, n. 13465; Cass., sez. lav., 20 ottobre 2011, n. 21818

(10)Cass., sez. 1, 24 marzo 2011, n. 6853; Cass., sez. 1, 16 marzo 2004, n. 5305

(11)Cass., sez. 1, 14 gennaio 2008, n. 598

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