Discriminazione da provare “anche” con dati statistici

Pubblicato il 29 luglio 2016

Gli elementi di fatto idonei a fondare la presunzione di esistenza di atti, patti e comportamenti discriminatori da parte del datore di lavoro (e dunque ad attribuire allo stesso, in caso di indizi precisi e concordanti in tal senso, l’onere della prova contraria di insussistenza della discriminazione), possono essere tratti “anche” da dati di carattere statistico.

Dati statistici in affiancamento ai fattuali

Detta previsione è palesemente diretta a corroborare lo sforzo difensivo del lavoratore ed a facilitare l’emersione della condotta illecita di cui egli sia stato vittima, in un’ottica di affiancamento agli elementi fattuali connotanti la fattispecie (o di chiarificazione della loro portata) e non già sostitutivi di essi, in presenza di vicende la cui lettura globale non può essere che rimessa, nella quasi pluralità dei casi, ad una pluralità di tratti distintivi ed alla loro univoca convergenza.

E’ quanto dedotto dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, confermando la nullità del trasferimento, delle sanzioni disciplinari e del successivo licenziamento di una lavoratrice madre, in quanto presumibilmente riconducibili ad un disegno discriminatorio nei confronti di quest’ultima.

La donna infatti, dopo soli tre giorni di inoperatività del divieto di cui all'art. 56 D.Lgs. 151/2001 ed al termine dell’astensione dal lavoro di un anno e quattro mesi, era stata trasferita presso un punto vendita distante oltre 150 km dalla sede di appartenenza, la quale, tuttavia, non pareva necessitare di una riduzione di personale. Né erano state prospettate ragioni dirimenti per cui si dovesse provvedere a detto trasferimento, né l’asserito calo di vendite nell'unità di appartenenza aveva trovato conferma.

Prova insussistenza discriminazione Al datore

Tutti elementi – nella decisione della Corte d’Appello, poi confermata in Cassazione – che risultano complessivamente idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti e comportamenti datoriali discriminatori, con la conseguenza che sarebbe spettato al datore di lavoro provare l’insussistenza della discriminazione (onere nella specie non assolto).

Hanno dunque correttamente osservato i giudici territoriali –precisa la Suprema Corte con sentenza n. 15435 del 26 luglio 2016 – come il rifiuto della lavoratrice colpita da discriminazione di riprendere l’attività lavorativa (condotta questa alla base delle sanzioni disciplinari e del licenziamento), dovesse considerarsi giustificata ai sensi dell’art. 1460 c.c., valutati comparativamente i reciproci inadempimenti ed alla stregua della funzione economico – sociale del contratto di lavoro.   

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