Liquidazione della polizza vita a favore del fallito e poteri del Curatore

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Liquidazione della polizza vita a favore del fallito e poteri del Curatore

La Cassazione ha affrontato nuovamente la questione dei poteri del Curatore di fronte ad una polizza vita stipulata dai soci di una società di persone prima del fallimento di quest’ultima.

Nella fattispecie esaminata dai giudici il Curatore del Fallimento di una società di persone  e dei soci illimitatamente responsabili, avendo   appreso  che questi ultimi avevano stipulato polizze vita con una nota Compagnia di assicurazione, aveva informato la stessa della volontà di riscattarle, scontrandosi, tuttavia, con il rifiuto della società assicuratrice, la quale riteneva che la liquidazione delle polizze poteva essere chiesta solo dagli assicurati e, comunque, eseguita ad esclusivo loro favore.   Provvedeva, infatti, la Compagnia a versare direttamente ai soci gli importi corrispondenti.

Il Curatore agìva in giudizio sostenendo  l'inefficacia di detti pagamenti, facendo valere la natura non previdenziale dei premi versati, e quindi negando che gli stessi potessero sfuggire  alla disciplina concorsuale.


La Compagnia, soccombente sia in primo che secondo grado, proponeva ricorso per cassazione sostenendo che  il fallimento, in quanto altro non è se non una procedura esecutiva concorsuale e collettiva, rientra nel divieto di cui all'art. 1923 c.c., comma 1, (1) la cui ratio è la salvaguardia degli importi portati dal contratto di assicurazione, stante la funzione previdenziale da questo assolta.

La Suprema Corte non ha condivìso le ragioni della ricorrente. 

Una precedente pronuncia della S.C., la  n. 8676/2000, sostanzialmente pronunciandosi in senso difforme dalle precedenti decisioni, si è espressa nel senso che le somme dovute dall'assicuratore in forza di assicurazione sulla vita vanno escluse dall'attivo fallimentare, L. Fall., ex art. 46, n. 5, soltanto se esse costituiscano l'oggetto del contratto in relazione alla funzione tipica di quest'ultimo, riferita al momento della naturale cessazione del rapporto.

Ne consegue che, essendo la fattispecie contrattuale dell'assicurazione sulla vita funzionale al conseguimento dello scopo di previdenza ("rectius", del risparmio finalizzato alla previdenza), tale finalità può dirsi raggiunta soltanto nel caso in cui il contratto abbia raggiunto il suo scopo tipico (quello, cioè, della reintegrazione del danno, provocato dall'evento morte e/o sopravvivenza, attraverso la prestazione dell'assicuratore preventivamente stimata idonea a soddisfare l'interesse leso da tale evento), e non anche in quello in cui l'assicurato, mercè l'esercizio del diritto di recesso "ad nutum", recuperi al suo patrimonio somme che, pur realizzando lo scopo di "risparmio", non integrano altresì gli estremi della funzione "previdenziale".

In tal caso tali somme vanno del tutto legittimamente acquisite all'attivo fallimentare.

Si opera in questa ipotesi lo scioglimento del contratto "ipso iure",  senza che rilevi, in contrario, la dizione letterale dell'art. 1923 cit., nel quale il riferimento alle "somme dovute", pur non contenendo alcuna distinzione di titolo obbligatorio, è pur sempre rapportabile all'obbligazione principale dedotta in contratto, mentre il versamento dell'importo del riscatto a seguito di recesso postula una situazione esattamente contraria, e cioè la cessazione anticipata del rapporto stesso.


Il contrasto determinatosi a seguito di detta sentenza è stato risolto dalle pronuncia delle Sezioni Unite (2) che, posta la valenza, in chiave di interpretazione costituzionalmente orientata, da riconoscersi al valore della "previdenza", oggetto di tutela da parte dell’art. 1923 c.c sia in via diretta che indiretta, e considerata la dimensione assunta nell'attuale contesto sociale dallo strumento dell'assicurazione sulla vita, quale forma di assicurazione privata maggiormente affine agli istituti di previdenza elaborati dalle assicurazioni sociali, ha respinto un'interpretazione restrittiva dell'art. 1923 c.c.. Ha  escluso, quindi,   che la "rete di protezione da azioni esecutive o cautelari che detta norma appresta al credito dell'assicurato per le somme dovutegli dall'assicuratore in base al contratto di cui al precedente art. 1919 c.c., si dissolva a fronte di esecuzione concorsuale, e che - nel quadro di questa - il bilanciamento degli opposti interessi possa risolversi privilegiando quella dei creditori, con forme di tutela ulteriori rispetto a quella (revocatoria) espressamente, all'uopo, già prevista dalla disposizione di cui al comma secondo dello stesso art. 1923 c.c.[3].

Secondo le Sezioni unite, quindi,  anche dopo la dichiarazione di fallimento rimane in vigore, nei sensi e nei limiti di cui all'art. 1924 c.c., il contratto di assicurazione sulla vita, stipulato dal fallito in bonis, e, stante l'impignorabilità ex art. 1923 c.c. dei crediti del fallito derivanti dal non disciolto contratto, detti crediti rientrano tra le "cose" non compresi nel fallimento, ex art. 46 c.p.c., n. 5, da ciò conseguendo infine che il curatore non è legittimato a chiedere lo scioglimento del contratto per acquisire alla massa il corrispondente valore di riscatto, potendo solo agire in revocatoria in relazione ai premi pagati, ove il contratto sia stato stipulato non per finalità previdenziali, ma in pregiudizio dei creditori.


Ciò posto, ed avendo ben chiaro il principio specificamente espresso dalle Sezioni unite, relativo alla carenza di legittimazione del curatore ad esercitare il riscatto, la Corte ha evidenziato nella sentenza in esame la diversità della fattispecie sottoposta al suo esame.


Infatti, nel caso esaminato    non si poneva alcuna questione relativamente all'esercizio del diritto di riscatto, avendo la società assicuratrice già corrisposto, dopo la dichiarazione di fallimento, agli assicurati, falliti, le somme conseguenti al riscatto, da ritenere esercitato dagli assicurati.

Ne consegue la palese ultroneità di ogni riferimento all'esercizio del diritto di riscatto da parte del curatore.

La Cassazione, quindi, ha preso atto della sussistenza di pagamenti eseguiti ai falliti dopo il fallimento, come tali soggetti alla sanzione dell'inefficacia L. Fall., ex art. 44, comma 2.

 Tale soluzione trova supporto nella stessa norma, atteso che l'art. 1923 c.c., si riferisce alle somme "dovute" e non già anche a quelle "corrisposte", e ben si accorda con il rilievo che, una volta che sia venuto meno il contratto di assicurazione sulla vita, viene a cessare ogni funzione previdenziale.

La pronuncia della Cassazione ha trovato il plauso della dottrina[4].

Una volta che il contratto sia sciolto per l’esercizio del diritto di recesso, e non abbia raggiunto il suo scopo tipico di previdenza, le somme liquidate, e <<corrisposte>> all’assicurato fallito in pendenza di procedura, non integrano gli estremi della funzione previdenziale e pertanto non possono ritenersi coperte dal dettato dell’art. 1923 c.c., il quale peraltro fornisce specifica protezione alle somme dovute e non a quelle corrisposte dall’assicuratore.

<< Sostanzialmente   non ricorrerebbe in detta ipotesi un interesse sociale-previdenziale in un’interpretazione costituzionalmente orientata, con la conseguenza che non si è in presenza di una deroga all’esecuzione che si apre con la procedura concorsuale poiché, venuto meno il contratto di assicurazione per recesso, cessa ogni funzione previdenziale, la cui finalità viene raggiunta con la liquidazione del danno provocato dall’evento morte>> 

 


[1] "Le somme dovute dall'assicuratore al contraente o al beneficiario non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare"

[2] Cass., sez. un., 8721/’08

[3] art. 1923, secondo comma, c.c.:<<Sono salve rispetto ai premi pagati le dispisizioni relative alla revocazione degli atti compiuti in pregiudizio dei creditori…>>

[4] Finardi, in Il Fallimento, 6/’15, pag. 657

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