Dequalificazione professionale: il mobbing è da provare

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Dequalificazione professionale: il mobbing è da provare

La dequalificazione professionale non è di per sé elemento sufficiente a integrare la fattispecie del mobbing, per la cui configurabilità va provata l'esistenza di un disegno persecutorio del datore di lavoro. E' quanto ha statuito la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con l'ordinanza n. 21865 dell'11 luglio 2022.

Dequalificazione professionale: mobbing e risarcimento dei danni

Un medico citava in giudizio l'Azienda Ospedaliera datrice di lavoro per vederla condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dall'asserita dequalificazione professionale e dal mobbing di cui lo stesso dottore si dichiarava vittima da più anni.

L'attività di mobbing a suo danno era infatti proseguita anche successivamente alla conclusione di un primo giudizio presso la Corte di appello di Brescia (sentenza n. 636/2010).

La domanda giudiziale del medico veniva respinta in primo grado dal Tribunale di Cremona sulla base del rilievo che i danni da risarcire fossero già stati oggetto di cognizione nel giudizio precedente, sentenza poi confermata in secondo grado (sentenza n. 450/2014).

La Corte di appello di Brescia, in particolare, oltre a rilevare che il danno alla professionalità e alla carriera del medico era stato già esaminato e valutato in via definitiva, sia con riferimento al passato, che in proiezione futura, aveva osservato che per ottenere un nuovo risarcimento per danno alla professionalità il medico avrebbe dovuto fornire prove e allegazioni degli ulteriori pregiudizi arrecati per effetto del protrarsi del demansionamento. Per converso, i fatti allegati dal medico erano insufficienti a configurare il mobbing in quanto potevano ricondursi a “pochi avvenimenti meramente episodici, totalmente privi di un intento vessatorio e connessi a normali problematiche lavorative”.

Il medico, inoltre, non aveva lamentato un aggravamento del danno alla salute, ma solo un danno di tipo "esistenziale”, a dimostrazione del quale non aveva presentato “pertinente e idonea allegazione", alla cui mancanza non poteva sopperirsi con la mera produzione di documentazione medica.

Mobbing e disegno persecutorio del datore di lavoro

Avverso la sentenza di secondo grado il professionista propone ricorso per Cassazione, fondato su quattro motivi.

La Cassazione rigetta il quarto motivo di ricorso confermando la decisione del giudice di merito che, in linea con la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, ha escluso l'idoneità degli episodi indicati a sostegno della prospettata condotta mobbizzante del datore di lavoro a dimostrare l'esistenza di un disegno persecutorio del datore di lavoro nei confronti del dipendente.

Per il mobbìng lavorativo, ricorda il Giudice di legittimità, non “è condizione sufficiente l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione" (Cass. n. 10992/2020).

Inoltre per la sua configurabilità deve ricorrere “l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio del datore medesimo" (Cass. n. 12437/ 2018).

Infine, si ricorda che ai fini del risarcimento del danno, “il giudice del merito è tenuto a valutare se i comportamenti denunciati possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e se siano causalmente ascrivibili a responsabilità del datore che possa esserne chiamato a risponderne nei limiti dei danni a lui specificamente imputabili" (Cass. n. 4222/ 2016).

Mobbing e danno di tipo "esistenziale"

La Corte di cassazione accoglie invece il secondo e il terzo motivo. In particolare, applicando il principio di diritto secondo il quale il giudice di merito nell'interpretare e qualificare la domanda non deve lasciarsi condizionare dalle espressioni adoperate dalla parte, ma valutare la reale volontà della parte quale desumibile dal complessivo comportamento processuale della stessa, ha rilevato che la sentenza di appello, nel ritenere non dedotto dal ricorrente un aggravamento del danno alla salute ma unicamente un danno di tipo "esistenziale", ha trascurato di valutare nella sua interezza l'atto introduttivo e i riferimenti all'art. 32 Cost. e al danno biologico.

A conclusione, accogliendo il secondo e il terzo motivo di ricorso, la sentenza della Corte di appello di Brescia viene cassata e la causa rinviata per nuovo esame del ricorso introduttivo.

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