No al recupero dei dazi se c’è buona fede

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Diversi sono stati finora gli interventi che i giudici di legittimità sia nazionali che comunitari hanno dovuto affrontare in merito al problema del recupero dei dazi nei casi in cui vi era l’emissione da parte di un Paese terzo “cooperante” di un certificato d’origine poi rivelatosi inesatto. L’origine doganale delle merci, i certificati emessi e la buona fede dell’importatore sono solitamente considerati come elementi che determinano l’impossibilità per le autorità comunitarie di recuperare a posteriori il dazio relativo a comportamenti irregolari commessi nello Stato di esportazione. Tuttavia, i sopra citati elementi mal si conciliano tra di loro, portando così di fatto all’apertura di interminabili contenziosi. Data la difficile interpretazione del Codice doganale comunitario circa l’origine dei beni, viene fatto salvo il principio della buona fede. Per evitare la corresponsione dei maggiori dazi doganali dovuti, l’importatore deve infatti provare di essere stato in buona fede all’atto della presentazione all’autorità doganale di certificati di origine preferenziale, poi rivelatisi falsi, fornendo la prova della sussistenza di tutte le condizioni richieste dall’articolo 220, paragrafo 2, lettera b) del Codice doganale. Per ovviare a tutti i numerosi problemi interpretativi della norma in questione si dovrebbe riconoscere ampia validità ai certificati emessi da autorità di Paesi terzi “cooperanti” oppure si dovrebbe abbandonare del tutto il sistema dei certificati imponendo, in via preventiva e non come ora a posteriori, agli importatori di acquisire ulteriori elementi probatori.  

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