Atti di frode del debitore e revoca dell'ammissione al concordato preventivo

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Atti di frode del debitore e revoca dell'ammissione al concordato preventivo

La Suprema Corte con due sentenze ravvicinate si occupa delle conseguenze di alcune situazioni pregiudizievoli poste in essere dal debitore e tenute nascoste al momento della presentazione della domanda di concordato preventivo.

Con la sentenza n. 9050 del 18/4/2014 gli ermellini si preoccupano di fornire lumi sul significato da attribuire agli atti di frode di cui all’art. 173 L.Fall.

Gli atti di frode, presupposto della revoca dell'ammissione al concordato preventivo ai sensi dell'art. 173, primo comma, legge fall., non possono individuarsi solo negli atti in frode ai creditori, di cui agli artt. 64 e segg. legge fall., ma è necessario, secondo la S.C.,  che siano "accertati" dal commissario giudiziale ed abbiano una valenza potenzialmente decettiva, per l'idoneità a pregiudicare il consenso informato dei creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, dovendo il giudice verificare, quale garante della regolarità della procedura, che vengano messi a disposizione dei creditori tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione della proposta. Peraltro, nell'ambito dei fatti accertati dal commissario giudiziale rientrano, oltre ai fatti "scoperti" perché del tutto ignoti nella loro materialità, anche i fatti non adeguatamente e compiutamente esposti in sede di proposta di concordato e nei suoi allegati  Nella specie esaminata dalla Corte, l'artificiosa sottovalutazione delle operazioni indicate, esposte senza fare riferimento a fatti rilevanti, l'omessa indicazione dei soggetti, persone fisiche, coinvolti nelle operazioni e nei cui confronti si sarebbe potuto agire per il recupero, la non chiara esplicitazione dei collegamenti societari andavano considerati "accertati" in quanto individuati nella loro completezza e rilevanza ai fini della corretta informazione dei creditori solo successivamente.

Con la successiva sentenza n. 14552 del 26/6/2014 la Cassazione torna ad esaminare l’ipotesi degli atti di frode idonei a giustificare la revoca dell’ammissione al concordato preventivo.

Dalla premessa sistematica che vorrebbe assegnare natura contrattuale al concordato preventivo riformato con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e successive modifiche, non è dato ricavare, secondo la S.C., la conclusione dell'irrilevanza della verifica officiosa di eventuali atti fraudolenti, se commessi anteriormente all'ammissione alla procedura, una volta che i creditori ne siano stati comunque informati. La disputa sulla natura dell'istituto del concordato preventivo è antica, ma, già prima della riforma, la  Corte aveva avuto modo di puntualizzare che, ove pure si fosse voluto convenire sul fondamento eminentemente negoziale dell'istituto, accostando la cessio bonorum concordataria alla figura contrattuale disegnata dall'art. 1977 c.c., si sarebbe nondimeno dovuto tenere conto che esso non si risolve in un mero atto di autonomia negoziale delle parti, ma si realizza in un contesto proceduralizzato ed in un ambito di controlli pubblici affidati al giudice per garantire il raggiungimento delle finalità perseguite dal legislatore (si veda, in motivazione, Sez. un. n. 19506 del 2008). Anche dopo l'entrata in vigore della riforma le sezioni unite hanno ribadito, nella sentenza n. 1521 del 2013, che i connotati di natura negoziale riscontrabili nella disciplina dell'istituto non escludono "evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici, suggeriti dall'avvertita esigenza di tener conto anche degli interessi di soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, ed attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell'accordo tra debitore e creditori, nonché con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia". Non è dunque ad impostazioni dogmatiche di carattere generale che occorre aver riguardo, bensì alla concreta disciplina normativa di volta in volta applicabile; ed è innegabile che la revoca dell'ammissione al concordato, per avere il debitore occultato o dissimulato parte dell'attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode - revoca contemplata dalla L. Fall., art. 173, in modo sostanzialmente invariato rispetto al regime anteriore alla riforma - , già per il carattere ufficioso da cui è connotata, non appare riducibile ad una dialettica di tipo meramente negoziale, ma pienamente invece s'iscrive nel novero degli interventi del giudice in chiave di garanzia cui sopra s'è fatto cenno.

Con riferimento agli "atti in frode" contemplati dal citato art. 173, la S.C. ha già avuto occasione di osservare come non si possa prescindere dall'accertamento circa la natura dolosa del comportamento del proponente (Cass. n. 17038 del 2011), consistente anche nella mera consapevolezza di aver taciuto nella proposta circostanze rilevanti ai fini dell'informazione dei creditori (Cass. 10778 del 2014); e come la condotta del debitore debba appunto risultare volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori (Cass. n. 13817 del 2011, e Cass. n. 3543 del 2014), non identificandosi con quelle di cui agli artt. 64 e ss. della medesima legge fallimentare, ma occorrendo che esse siano state inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate dal commissario giudiziale (Cass. n. 23387 del 2013). Si è anche aggiunto che l’art. 173 non esaurisce il suo contenuto precettivo nel richiamo al fatto scoperto perché ignoto nella sua materialità, ma ben può ricomprendere il fatto non adeguatamente e compiutamente esposto in sede di proposta di concordato ed allegati, e che quindi può dirsi accertato dal commissario, in quanto individuato nella sua completezza e rilevanza ai fini della corretta informazione dei creditori, solo successivamente (Cass. n. 9050 del 2014). Ferme tali premesse, ed anche a prescindere dall'inquadramento dell'istituto nella figura generale dell'abuso del diritto, occorre puntualizzare che la fraudolenza degli atti posti in essere dal debitore, se implica, una loro potenzialità decettiva nei riguardi dei creditori, non per questo assume rilievo, ai fini della revoca dell'ammissione al concordato, solo ove l'inganno dei creditori si sia effettivamente realizzato e si possa quindi dimostrare che, in concreto, i creditori medesimi hanno espresso il loro voto in base ad una falsa rappresentazione della realtà.

Quel che rileva è il comportamento fraudolento del debitore, non l'effettiva consumazione della frode. Se così non fosse, sostiene la S.C., se cioè l'accertamento degli atti fraudolenti ad opera del commissario potesse essere superato dal voto dei creditori, preventivamente resi edotti della frode e disposti ugualmente ad approvare la proposta concordataria, non si capirebbe perché il legislatore ricolleghi, invece, immediatamente alla scoperta degli atti in frode il potere-dovere del giudice di revocare l'ammissione al concordato. E ciò senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto dei creditori, ormai resi edotti della realtà della situazione venuta alla luce, e senza dare spazio alcuno a possibili successive loro valutazioni in proposito (come, sul piano sistematico, risulta oggi confermato anche dall'applicabilità dell'istituto della revoca per atti fraudolenti sin dalla fase ancora embrionale della procedura, in caso di domanda di concordato con riserva di successiva presentazione della proposta e del piano, a norma della L. Fall., art. 161, comma 6, novellato dal D.L. n. 69 del 2013, art. 82, comma 1, lett. b, convertito con L. n. 98 del 2013). In tali situazioni, ove fosse fondata la tesi contraria (frode irrilevante perché considerata tale dai creditori), sarebbe stato logico che il legislatore avesse previsto ugualmente la possibilità di dar corso alla procedura, almeno sino all'adunanza dei creditori, così da consentire a costoro di esprimere il loro voto alla luce dei fatti scoperti ed illustrati dal commissario giudiziale. Poiché non è così, deve di necessità concludersi che il legislatore ha inteso sbarrare la via del concordato al debitore il quale abbia posto dolosamente in essere gli atti contemplati dal citato art. 173, individuando in essi una ragione di radicale non affidabilità del debitore medesimo e quindi, nel loro accertamento, un ostacolo obiettivo ed insuperabile allo svolgimento ulteriore della procedura.

Alla luce delle suesposte considerazioni la Corte di Cassazione ha enunciato tale ulteriore principio di diritto: <<l'accertamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o di dissimulazione dell'attivo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più crediti, dell'esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore determina la revoca dell'ammissione al concordato, a norma della L. Fall., art. 173, indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e quindi anche nell'ipotesi in cui i creditori medesimi siano stati resi edotti di quell'accertamento>>.

La Corte, tuttavia, si affretta a precisare che il principio di diritto enunciato non vale, certo, a reintrodurre il giudizio di meritevolezza, che la riformata legge fallimentare ha espunto dal novero dei presupposti per l'ammissione al concordato preventivo. La meritevolezza era, infatti, un requisito positivo di carattere generale, che implicava la necessità di un apprezzamento favorevole della pregressa condotta dell'imprenditore (sfortunato, ma onesto), nell'ottica di una procedura prevalentemente concepita come beneficio premiale. Era, quindi, nozione ben più ampia dell'assenza di atti di frode, non solo genericamente pregiudizievoli, ma direttamente finalizzati, in esecuzione di un disegno preordinato, a trarre in inganno i creditori in vista dell'accesso alla procedura concordataria. Nè al riguardo vale obbiettare che lo strumento repressivo di condotte illecite, in subiecta materia, sarebbe da individuare non già nel citato art. 173, bensì nella norma incriminatrice di cui al successivo art. 236: perché è perfettamente ammissibile, ed anzi normale, il concorso di una sanzione penale con altra di diversa natura, volta ad impedire la validità e l'efficacia di atti viziati da antigiuridicità speciale.

E’ appena il caso di accennare, in conclusione,  all’opinione contraria di parte della dottrina che insiste, invece, sull’effetto salvifico (ai fini della prosecuzione del concordato) della confessione dell’atto di frode da parte del debitore (cfr  commento di Giovanni la Croce, in Il Fallimento, 2015, 3, 306)

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