Bambino, adolescente e impresa familiare: il “mix” della Cassazione

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Bambino, adolescente e impresa familiare: il “mix” della Cassazione

Premessa

La Corte di Cassazione, sezione penale, con sentenza n. 41591 depositata il 13 settembre 2017, ha affermato che le norme relative alla tutela del lavoro minorile non si applicano al prestatore minorenne, qualora quest’ultimo venga adibito in via occasionale in lavorazioni non nocive nell’ambito delle imprese a conduzione familiare.

I fatti oggetto di causa riguardano una socia accomandataria che aveva impiegato, nella propria impresa commerciale e in via saltuaria, una ragazza di 16 anni senza che quest’ultima avesse terminato il periodo minimo di istruzione obbligatoria. Dagli atti emersi in corso di giudizio la ragazza sarebbe stata “parente del compagno” dell’accomandataria.

Il giudice di merito aveva condannato sia l’accomandataria per aver ammesso al lavoro il minore senza che questi avesse frequentato il periodo minimo di istruzione obbligatoria sia i genitori di quest’ultima per averne consentito l’avvio al lavoro in tale condizione.

La Corte di Cassazione tuttavia ha assolto gli imputati ritenendo a costoro non applicabile l’art. 2 della L. n. 977/67 come modificato dal D.lgs. n. 345/99 al caso “degli adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata concernenti […] le prestazioni di lavoro non nocivo, né pregiudizievole, né pericoloso, nelle imprese a conduzione familiare”.

Per un esame della pronuncia occorre muovere dalle definizioni di bambino e adolescente entrambe contenute nella L. n. 977 cit.

Le definizioni di bambino e adolescente

L’art. 1, comma 2, della L. n. 977 cit., alla lett. a) stabilisce che per bambino debba intendersi “il minore che non ha ancora compiuto 15 anni di età o che è ancora soggetto all’obbligo scolastico”. D’altro canto la lett. b) del medesimo comma di legge considera adolescente “il minore di età compresa tra 15 anni e 18 anni e che non è più soggetto all’obbligo scolastico”.

L’art. 3 stabilisce, altresì, che “l’età minima per l’ammissione al lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non può essere inferiore ai 15 anni compiuti”. 

L’art. 4, al comma 1, stabilisce a sua volta che “è vietato adibire al lavoro i bambini […]”.

L’obbligo di istruzione come discrimine per le definizioni di bambino e adolescente

Il D.M. n. 323 del 1999, art. 1, n. 3, ha fissato a sua volta il tetto minimo per l’assolvimento dell’obbligo scolastico prevedendo che “ha adempiuto all’obbligo scolastico l’alunno che abbia conseguito la promozione al secondo anno di scuola secondaria superiore; chi non l’abbia conseguita è prosciolto dall’obbligo se, al compimento del quindicesimo anno di età, dimostri di avere osservato per almeno nove anni le norme sull’obbligo scolastico”.

L’art. 1, comma 622, della L. n. 296/06 (c.d. Finanziaria per il 2007) ha ulteriormente elevato, a partire dall’anno scolastico 2007/2008, l’obbligo di istruzione, portandolo ad almeno 10 anni, nella prospettiva di consentire al discente di conseguire un titolo di studio di scuola secondaria superiore o una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età.

Il Ministero del Lavoro, con nota prot. 9799 del 20 luglio 2007, ha precisato che “[…] dal 1° settembre 2007 decorra anche l’innalzamento a 16 anni dell’età di ingresso al lavoro per i minori”.

A ben vedere però il legislatore non è intervenuto modificando la L. 977 cit. circa il requisito minimo di età per essere ammessi al lavoro (cioè 15 anni), ma è intervenuto innalzando la soglia di assolvimento dell’obbligo scolastico a 10 anni (superando la precedente dizione del D.M. n. 323 del 1999, art. 1, n. 3, che prevedeva 9 anni di scolarizzazione).

Ciò significa che, ad esempio, i minori che abbiano cominciato il ciclo di istruzione con un anno di anticipo (cosiddetta “primina”) si possano trovare all’età di 15 anni nella condizione di avere alle spalle 10 anni di scolarizzazione. In tale caso gli stessi potranno liberamente accedere al mondo del lavoro, salvo il rispetto degli altri requisiti previsti per il lavoro minorile.

La verifica relativa all’adempimento o meno dell’obbligo di istruzione non deve arrestarsi a un riscontro formale, circa l’esistenza o meno dei dieci anni di iscrizione alla scuola. Occorre piuttosto che il minore abbia fatto seguire all’iscrizione un’effettiva frequenza al corso di studi, quantomeno per un periodo di tempo che l’istituto di insegnamento reputi necessario e utile ai fini dell’effettivo assolvimento dell’anno scolastico.

È bambino anche chi ha 17 anni, ma non ha assolto all’obbligo di istruzione

Dalle previsioni normative sopra citate si deduce che coloro che hanno superato i 15 anni e che hanno assolto all’obbligo scolastico (10 anni di istruzione) sono considerati normativamente “adolescenti” e possono liberamente lavorare.

Diversamente il fanciullo che ha superato la soglia di 15 anni ma non ha ancora assolto all’obbligo scolastico è definibile “bambino” e non può in ogni caso essere adibito al lavoro, quantomeno finché non raggiunga la maggiore età.

Il trattamento sanzionatorio

Il Legislatore ha delineato un trattamento sanzionatorio diversificato per la violazione degli artt. 3 e 4 della L. 977 cit. e che in base a quanto sopra descritto riguarda esclusivamente l’adibizione al lavoro dei “bambini”:

  • violazione dell’art. 3 applicabile nel caso assai residuale del bambino che ha assolto all’obbligo scolastico, ma non ha ancora compiuto 15 anni: pena alternativa dell’arresto non superiore a sei mesi o dell’ammenda fino a euro 5.164,00, così come stabilita dall’art. 26, comma 2, L. 977 cit. (ipotesi lieve).
  • violazione dell’art. 4 applicabile nell’ipotesi in cui vengano violati simultaneamente entrambi i requisiti (età e istruzione) o comunque quando il bambino che ha compiuto 15 anni non ha ancora assolto l’obbligo scolastico: pena dell’arresto fino a 6 mesi, così come stabilita dall’art. 26, comma 1, L. 977 cit. (ipotesi grave).

Il Ministero del Lavoro, con circolare n. 86 del 2000, ha osservato che “il maggior rigore, dal punto di vista punitivo […], dimostrato dalla previsione della più grave sanzione dell’arresto fino a sei mesi, con esclusione del ricorso alla prescrizione obbligatoria, si giustifica, ad avviso della scrivente Divisione, in quanto si riscontrerebbe nelle violazioni di cui trattasi il difetto o di entrambe le condizioni - compimento di 15 anni e conclusione del periodo di istruzione obbligatoria – o di quella – adempimento dell’obbligo scolastico – ritenuta, come detto, fondamentale ai fini del raggiungimento da parte del minore della maturità necessaria affinché egli possa svolgere legittimamente attività lavorativa”.

Considerazioni sulla sentenza della Suprema Corte di Cassazione

Su quest’ultima fattispecie (mancato assolvimento dell’obbligo scolastico da parte di chi ha compiuto 15 anni) si è concentrato per l’appunto il giudizio della Suprema Corte, la quale ha emanato una decisione che non pare in linea con le previsioni sopra descritte.

In primo luogo la Corte ha ritenuto che la ragazza sedicenne adibita al lavoro fosse adolescente quando in realtà la stessa non avendo ancora terminato il periodo di istruzione obbligatoria doveva considerarsi a tutti gli effetti una bambina. Conseguentemente non poteva senz’altro applicarsi al caso oggetto di giudizio la previsione di esonero della responsabilità di cui all’art. l’art. 2 della L. n. 977 cit., perché riferibile esclusivamente agli adolescenti.

In secondo luogo la sentenza, senza dar minimamente conto del grado di parentela, ha ritenuto che la ragazza potesse essere considerata come facente parte dell’impresa familiare solo perché “parente del compagno” dell’accomandataria. In tale laconica affermazione, che non specifica neppure il grado di parentela della “bambina”, si annida un grave equivoco, che concerne il portato applicativo dell’art. 230 bis c.c..

Infatti, i soggetti che possono comporre l’impresa familiare sono solo quelli tassativamente menzionati dalla suddetta previsione normativa che richiede legami di filiazione o affiliazione rispetto a un nucleo familiare fondato sul vincolo matrimoniale. Nella fattispecie pertanto non rientrano i c.d. “compagni” o meglio i conviventi more uxorio e conseguentemente neppure coloro che possano vantare rispetto a costoro un qualsivoglia grado di parentela.

Semmai, e a tutto voler concedere, il caso esaminato dalla S.C. avrebbe potuto essere sussunto nell’art. 230 ter c.c. all’epoca dei fatti però non ancora emanato. Ma anche in tale evenienza la “bambina” non avrebbe potuto essere considerata come parte dell’impresa familiare, giacché, come osservato dall’INPS con circolare n. 66 del 2017, le tutele previste per quest’ultima fattispecie non sono predicabili per i conviventi more uxorio.

Si ritiene pertanto che la corretta soluzione del caso passava attraverso una conferma della responsabilità penale del datore e dei genitori, stante il divieto di cui all’art. 4 della L: n. 977 cit. e la non pertinente applicazione della disciplina dell’impresa familiare.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo dell’opinione degli autori e non impegnano l’amministrazione di appartenenza

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