Cassazione: polizza vita senza conservazione del capitale? È investimento

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Cassazione: polizza vita senza conservazione del capitale? È investimento

La Corte di cassazione ha confermato la decisione di appello con cui era stata dichiarata la risoluzione di una polizza assicurativa vita per inadempimento, condannando la Compagnia di assicurazione alla restituzione degli importi corrisposti dagli assicurati anche a titolo di commissioni versate.

In particolare, i giudici di secondo grado avevano rilevato che poiché nel contratto mancava la garanzia della conservazione del capitale alla scadenza e dunque la natura assicurativa del prodotto, lo stesso, oggetto dell'intermediazione, doveva essere considerato un vero e proprio investimento finanziario da parte di coloro che figuravano come assicurati, sicché trovavano applicazione il T.U.F. e i regolamenti Consob.

A fronte di questa statuizione, la società di assicurazione aveva promosso ricorso in sede di legittimità ottenendo ivi, tuttavia, solo una declaratoria di inammissibilità e infondatezza.

Interpretazione del contratto al giudice di merito

In particolare, con ordinanza n. 10333 del 30 aprile 2018, la Terza sezione civile di Cassazione ha ricordato, in primo luogo, quanto già affermato in una precedente pronuncia di legittimità (n. 6061/2012) ai sensi della quale l’organo giudicante nel merito, al fine di stabilire se l'impresa emittente, l'intermediario ed il promotore abbiano violato le regole di leale comportamento previste dalla specifica normativa, sia tenuto a procedere con l’interpretazione del contratto, interpretazione che non è censurabile in sede di legittimità se immune da vizio di motivazione.

Questo – continua la sentenza - al fine di stabilire se il contratto medesimo, al di là del "nomen iuris" attribuitogli, “sia da identificare come polizza assicurativa sulla vita (in cui il rischio avente ad oggetto un evento dell'esistenza dell'assicurato è assunto dall'assicuratore) oppure si concreti nell'investimento in uno strumento finanziario (in cui il rischio di "performance" sia per intero addossato all'assicurato)”.

Orbene, nel caso in esame il giudice di merito era giunto alla conclusione che erano le persone fisiche e non la società fiduciaria a doversi considerare come investitori, conclusione a cui la Compagnia aveva opposto una diversa ricostruzione fattuale, ai sensi della quale parte contrattuale era, invece, la società fiduciaria. Tuttavia, secondo gli Ermellini, i termini entro cui la detta censura era stata proposta non le conferivano natura di denuncia di vizio motivazionale, bensì quella di istanza di rivalutazione del giudizio di merito, profilo che, come detto, è precluso nella sede di legittimità.

La Corte ha quindi sottolineato che una volta assunta come investitore, non la società fiduciaria, ma la persona fisica fiduciante, “l'adempimento degli obblighi dell'intermediario finanziario devono essere valutati nei confronti di quest'ultimo, e non nei confronti della società fiduciaria, avuto riguardo alla precipua funzione di rimozione delle asimmetrie informative della disciplina del rapporto fra investitore e intermediario finanziario”.

E nella specie, i giudici territoriali avevano coerentemente accertato il mancato assolvimento, nei confronti della persona fisica dell'investitore, degli obblighi informativi e di comportamento rispetto a operazione finanziaria “non adeguata”, previsti dal regolamento Consob di riferimento.

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