Diritto di critica e condotta antisindacale

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L’art. 28 della L. n. 300/70, stabilisce che “qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.

La legittimazione a ricorrere al Giudice per la tutela de qua è riconosciuta ai soli organismi locali dei sindacati nazionali (cfr. Corte Cost. n. 54/1974).

Si tratta di una disposizione con un campo di applicazione molto ampio sia per quanto riguarda i soggetti attivi (atteso che coinvolge tutti i datori di lavoro pubblici e privati, di piccole e di grandi dimensioni) sia per ciò che concerne i comportamenti vietati.

L’art. 28 della L. n. 300 cit. è considerato norma in bianco, perché non definisce una fattispecie tipica, poiché non garantisce soltanto la tutela dei diritti espressamente previsti dallo Statuto ma l’esercizio in generale delle libertà sindacali. L’indeterminatezza della previsione comporta che i beni oggetto della tutela possono essere lesi da una varietà di comportamenti e da una serie di modalità che non è possibile determinare preventivamente.

Ciò che è importante sottolineare è che non è richiesta la prova dell’intenzionalità del datore di lavoro di offendere gli interessi tutelati, essendo sufficiente che la condotta sia oggettivamente idonea a produrre il risultato vietato dalla legge (SS.UU. n. 5295/97).

La giurisprudenza di legittimità ha stabilito recentemente che la stipula di un contratto collettivo nazionale, nonostante l’indubbia rilevanza sintomatica della rappresentatività che ne discende, non costituisce l’unico elemento significativo, né lo svolgimento di effettiva attività sindacale può essere ravvisato solo nella stipulazione di un contratto collettivo esteso all’intero ambito nazionale. Ciò che deve essere tenuto in considerazione è lo svolgimento, da parte dell’organismo sindacale, di un’effettiva azione sindacale, non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale (Cass. civ. Sez. lavoro, 22/07/2014, n. 16637). Assume rilievo, pertanto, oltre alla stipula di un contratto collettivo di livello nazionale, ogni altro elemento indicativo in concreto di un’attività sindacale al suddetto livello.

Quando si configura la condotta antisindacale rispetto all’attività svolta dall’organismo sindacale contro le decisioni assunte dal datore di lavoro? Laddove viene realizzato l’illecito, la tutela assicurata dall’art. 28 è di natura inibitoria e ripristinatoria dell’interesse leso, perché si concretizza nell’ordine del Giudice di rimozione degli effetti pregiudizievoli.

In generale, il diritto di critica si concretizza, non nella semplice narrazione di fatti, ma nell’espressione di un giudizio o di un’opinione e trova fondamento nell’art. 21 della Costituzione Italiana, che al primo comma recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e nell’art. 39 della medesima Carta, che sancisce il principio della libertà dell’organizzazione sindacale.

Il diritto di critica incontra tuttavia dei limiti, che sono rappresentati dalla rilevanza sociale dell’opinione espressa, dalla verità dei fatti esposti e dalla correttezza delle espressioni usate.

La violazione di tali limiti configura responsabilità, anche di natura penale, a carico dell’autore della dichiarazione e segnatamente anche del sindacalista impegnato nella propria attività.

La rilevanza sociale risponde all’interesse della collettività a essere tenuta al corrente su particolari aspetti o su fatti o eventi che possono contribuire alla formazione dell’opinione altrui. In ambito sindacale la collettività è rappresentata dalle parti del rapporto di lavoro ovvero dal datore di lavoro e dai lavoratori, ciascuno dei quali ha interesse a conoscere le dinamiche sulle quali vengono regolamentati i rispettivi interessi.

Il rispetto del limite della verità richiede una sostanziale corrispondenza tra le opinioni espresse e i fatti posti alla base della narrazione.

La terza condizione che assicura il legittimo esercizio del diritto di cronaca è rappresentata dalla c.d. continenza e cioè dalla forma civile dell’esposizione.

Spesso su quest’ultimo aspetto si concentra l’attenzione in ambito sindacale, atteso che non è inusuale per il sindacalista adoperare espressioni colorite nei confronti del datore di lavoro, al fine di evitare che quest’ultimo prenda decisioni che egli ritiene essere pregiudizievoli per i lavoratori. Non è altrettanto raro che il datore di lavoro reagisca a tali affermazioni con comportamenti decisi e dissuasivi nei confronti del sindacalista.

Si tratta, allora, di comprendere da un lato quando il limite della continenza verbale possa o meno ritenersi rispettato da parte del sindacalista, dall’altro quando la reazione del datore di lavoro trasmodi in una condotta vietata dall’art. 28 della L. n. 300 cit..

In via generale, può affermarsi che la critica all’attività svolta dal sindacato o dai sindacalisti non costituisce di per sé attività antisindacale quando la reazione del datore di lavoro non comprime o sopprime il conflitto sindacale (che costituisce valore fondante del nostro diritto sindacale), ma al contrario, lo valorizza nel rispetto del contraddittorio e della dialettica tra parti contrapposte. Tale valore, invece, viene calpestato quando si riscontrano elementi indiziari atti a provare che nell’attualità detta azione diffamatoria si risolva nella dissuasione dei lavoratori dall’aderire a quel determinato sindacato o alle relative iniziative (cfr. Trib. Venezia Ord., 01/02/2008). In tal caso, il Ministero del Lavoro, con risposta a interpello n. 5 del 2011, ha affermato che laddove il Giudice accerti tale condotta antisindacale e il destinatario disattenda l’ordine di rimozione impartito, il personale ispettivo risulta nella circostanza legittimato ad adottare provvedimento di prescrizione ex art. 15 D.lgs. n. 124/04, previa informativa all’Autorità competente.

L’organismo sindacale, dal canto suo, anche in ragione della forte animosità che caratterizza la propria posizione, può utilizzare toni aspri e pungenti, maggiormente incisivi rispetto a quelli che normalmente si usano nei rapporti interpersonali, considerato che il ruolo svolto dall’organizzazione sindacale è sostanzialmente paritario rispetto a quello del datore di lavoro. L’importante è che tali espressioni non arrivino a tracimare in contumelie, con frasi che comportino l’attribuzione all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori e non provati.

Affinché si realizzi una serena dialettica tra le parti antagoniste, occorre un’organizzazione del lavoro che rispetti i diritti e le libertà di tutti, a cominciare dalla libertà di pensiero, cardine dello Stato democratico, al fine di impedire che il forte possa prevalere sul debole e ridurre drasticamente le onnipotenze prevaricatorie da chiunque vagheggiate.
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