Lavoro intermittente…tutto come prima e (forse) più di prima

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Lavoro intermittente…tutto come prima e (forse) più di prima

Premessa

La Corte Europea di Giustizia nella decisione C-143/16 del 19 luglio 2017 ha ritenuto conforme al diritto comunitario e non discriminatoria la normativa italiana che consente l’assunzione con contratto di lavoro intermittente di giovani “under 24”, sempre che l’attività di lavoro termini entro il compimento del 25° anno di età.

Va premesso brevemente che, secondo la previsione di cui all’art. 13 comma 1 del D.lgs. n. 81/2015, il contratto intermittente può essere concluso secondo le esigenze individuate dai “contratti collettivi” ovvero in mancanza di riferimenti convenzionali in base alla fattispecie tipizzate con decreto del Ministro del lavoro. In assenza di tale decreto la prassi ha fatto riferimento alle ipotesi disciplinate dal R.D. del 6 dicembre 1923, n. 2657.

Al di fuori delle fattispecie codificate contrattualmente ovvero in via regolamentare, l’art. 13 comma 2 legittima la stipula del contratto di lavoro intermittente con soggetti aventi meno di 24 anni di età e con più di 55 anni.

Il caso sottoposto alla Corte di Giustizia

Proprio in relazione a quest’ultima previsione la Corte di Cassazione ha sollevato questione di pregiudizialità al Giudice Europeo, affinché valutasse se la normativa italiana fosse o meno compatibile con la direttiva comunitaria 2000/78 e con i principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ed eventualmente se generasse una discriminazione tra lavoratori in base all’età.

La questione di fatto posta al vaglio dei Giudici italiani riguardava un lavoratore, che, occupato con contratto intermittente, non era più stato chiamato in servizio causa raggiungimento del venticinquesimo anno di età.

Il Tribunale, adito dal lavoratore, ha respinto la domanda proposta da quest’ultimo, volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del contratto di lavoro per discriminazione in ragione dell’età e conseguentemente anche il relativo licenziamento.

La Corte d’appello invece ha riformato la pronuncia di primo grado, ritenendo che l’art. 34 del D.lgs. n. 276/03, applicabile ratione temporis, fosse contrario alla direttiva 78 cit. e previa disapplicazione della stessa ha ordinato la riammissione in servizio del lavoratore.
Da qui il ricorso per Cassazione del datore di lavoro e la successiva remissione pregiudiziale al Giudice UE.

La motivazione della sentenza della Corte di Giustizia

Presupposto della sentenza della Corte è che la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, in particolare quando si tratta di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione. Corrisponderebbe a tale finalità anche l’agevolazione dell’assunzione di giovani mediante strumenti contrattuali flessibili, nell’ambito dei quali viene annoverato anche il contratto di lavoro intermittente.

Tale contratto, secondo i Giudici della Corte, sarebbe appropriato alla finalità anzidetta quantomeno per un duplice motivo. In primo luogo perché facoltizzerebbe le aziende ad avvalersi di manodopera in maniera duttile e a basso costo rispetto al contratto ordinario. In secondo luogo perché, in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata, lo stato di occupazione del giovane lavoratore, quantunque non sicuro e stabile, sarebbe senz’altro preferibile allo stato di disoccupazione.

In forza di tali considerazioni la Corte è pervenuta alla conclusione che l’art. 34 del D.lgs. n. 276 cit., ora trasfuso nell’art. 13 comma 2 del D.lgs. n. 81 cit., costituisce norma conforme al diritto comunitario e non discriminatoria.
Si tratta di una decisione che si pone nel solco della virata “liberista” intrapresa dalla giurisprudenza comunitaria con le famose e altrettanto discutibili sentenze dell’11 dicembre 2007 - C-438/05 (Viking Line); del 18 dicembre 2007 - C-341/05 (Laval) e del 3 aprile 2008 C-346/06 (Rüffert).

Considerazioni

Le motivazioni della decisione sopra sintetizzate sono tutt’altro che persuasive e rischiano di aggravare ulteriormente l’ormai conclamata divaricazione tra libertà economiche e politiche sociali, in un contesto che tende a conferire a queste ultime una valenza subordinata alla prime.
Particolarmente perniciosa è l’osservazione per cui, nell’attuale congiuntura economica, l’occupazione del giovane con contratto intermittente sarebbe da preferire allo stato di disoccupazione. Sembra, in altri termini, che la Corte lanci un monito ai giovani: poiché le aziende soffrono di costi concorrenziali al ribasso, la domanda di manodopera, al di là dei relativi contenuti, andrebbe comunque accettata, perché sarebbe sempre migliorativa all’assenza di rapporti di lavoro.

Un tale assunto tuttavia potrebbe applicarsi non solo al giovane occupato/disoccupato, ma a qualsiasi persona disposta a lavorare e che in un simile contesto dovrebbe essere disposta ad accettare il regresso o meglio il livellamento verso il basso delle tutele, con una consequenziale rarefazione dei livelli essenziali di protezione ovvero un abbassamento delle condizioni di lavoro.

Non si ignora che una decisione di segno contrario avrebbe aperto la strada a un utilizzo sempre più esteso del contratto intermittente e che tale circostanza avrebbe corso il rischio di marginalizzare il ruolo invero formalmente centrale assegnato dall’art. 1 del D.lgs. n. 81 cit. contratto ordinario a tempo indeterminato. Ma è anche vero che la dilatazione applicativa del job on call potrebbe sin da oggi essere realizzata senza interventi “dall’alto” e coinvolgendo semplicemente le parti sociali.
Infatti, se si considera che le esigenze che legittimano il ricorso al lavoro intermittente possono essere determinate, ai sensi dell’art. 13 comma 1 del D.lgs. n. 81 cit., dai contratti collettivi e che l’art. 55 del medesimo testo normativo include in essi anche i contratti aziendali, purché conclusi con gli organismi comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, la conseguenza che si trae dal combinato disposto delle predette norme è che anche le parti sociali a livello locale ad oggi risultano normativamente facoltizzate ad attuare una previsione finora disapplicata o meglio applicata minimamente solo per il tramite del R.D. del 1923.
Non sorprenderebbe pertanto se a breve si giunga a siffatta conclusione, restando comunque salvo il limite delle 400 giornate nell’arco di tre anni solari, ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo

 

In prospettiva…

La politica del c.d. flexicurity e delle misure funzionali alla mobilità dei lavoratori ha favorito, nel corso degli ultimi anni, l’assunzione di scelte volte ad allentare i canali di entrata e di uscita dal lavoro e a cercare, in carenza di risorse (sic!), un’universalizzazione delle tutele per coloro che siano stati espulsi dal mercato del lavoro. D’altro canto la stabilizzazione dei rapporti di lavoro è stata affidata solo o quasi solamente ai vantaggi derivanti da sgravi contributivi.

La tendenza andrebbe invertita e anziché ripiegare su determinazioni che invitano a guardare al “bicchiere mezzo vuoto” occorrerebbe alzare gli occhi e mirare in prospettiva con scelte ambiziose e coraggiose.

La marcia verso il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro si intraprende non con l’accettazione della politica del basso costo, del risparmio e del “poco e subito”, ma comprendendo quale sia, in un mercato globale, il ruolo che il nostro tessuto produttivo, connotato da alte professionalità, possa effettivamente recitare.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo dell’opinione degli autori e non impegnano l’amministrazione di appartenenza
Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale

 

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