RdC e lavoro in nero: il percettore rischia la condanna penale

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RdC e lavoro in nero: il percettore rischia la condanna penale

Confermata, dalla Cassazione, la condanna penale che i giudici di merito avevano impartito ad un uomo per il reato di cui all'art. 7, comma 2, del Dl n. 4/2019 per avere, quale percettore di reddito di cittadinanza, omesso di comunicare lo svolgimento di attività lavorativa, presso una ditta individuale.

L'imputato aveva impugnato la decisione di condanna davanti alla Suprema corte, denunciando errata applicazione del menzionato art. 7 e un vizio della motivazione, nella parte relativa alla affermazione della sussistenza dell'elemento intenzionale della condotta.

Lo stesso aveva dedotto che l'attività lavorativa da lui asseritamente svolta era in realtà priva di retribuzione, non essendo neppure stata accertata la corresponsione di salari, per come anche confermato dal presunto datore.

Tale attività era stata posta in essere mentre era sottoposto alla detenzione domiciliare al solo scopo di alleviare le afflizioni derivanti dalla detenzione, cosicché l'omessa comunicazione contestata non rientrava tra le condotte punibili contemplate dalla norma incriminatrice, in quanto essa non avrebbe potuto comportare la revoca del beneficio, con la conseguente irrilevanza penale della comunicazione e della sua omissione.

Diverse le considerazioni del Procuratore Generale della Repubblica, il quale, oltre ad eccepire l'inammissibilità del ricorso, aveva sottolineato la correttezza della decisione di merito, in quanto l'imputato avrebbe dovuto comunicare la variazione occupazionale, anche se il rapporto di lavoro non era regolarizzato.

Omessa comunicazione di attività lavorativa, anche irregolare: è reato

Con sentenza n. 25306 del 4 luglio 2022, la Terza sezione penale della Cassazione ha giudicato il ricorso manifestamente infondato, ritenendolo sia riproduttivo del motivo d'appello, adeguatamente considerato e motivatamente disatteso dalla Corte d'appello, sia generico, essendo privo di analisi della condotta e delle prove disponibili e di confronto, tantomeno critico, con la motivazione della sentenza impugnata.

Secondo gli Ermellini, le doglianze sollevate dal ricorrente erano in realtà volte a censurare accertamenti di fatto che la Corte territoriale, in accordo con il Tribunale, aveva giustificato in modo coerente e logico.

La Corte di gravame, infatti, aveva ribadito la configurabilità del reato contestato al ricorrente a causa dell'omessa comunicazione all'Inps dello svolgimento di attività lavorativa retribuita, seppure irregolare, sottolineando come fosse inverosimile quanto dichiarato dall'imputato e dal datore di lavoro, a proposito della gratuità dell'attività lavorativa svolta dal primo, che sarebbe stata compensata solo con regalie saltuarie.

Quella esposta in secondo grado, ciò posto, era una motivazione idonea, fondata sulla corretta applicazione della comune regola di esperienza secondo cui l'attività lavorativa, anche se irregolare, viene retribuita.

Senza contare quanto riconosciuto dallo stesso datore di lavoro che, sia pure qualificandole come "regalie" corrisposte in "occasioni particolari", aveva riconosciuto la corresponsione di compensi per l'attività lavorativa svolta nel suo interesse.

Le doglianze del ricorrente, in definitiva, finivano "per appuntarsi" su un accertamento di fatto, circa la corresponsione di una retribuzione, accertamento che era stato tuttavia giustificato in modo logico e concorde dai giudici di merito e non era, dunque, suscettibile di rivisitazione in sede di legittimità.

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