Licenziamento per GMO: nessun obbligo di ricollocazione in mansioni inferiori non compatibili
Pubblicato il 04 febbraio 2025
In questo articolo:
- Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repêchage: nuova decisione della Cassazione
- Il caso esaminato
- Il ricorso del lavoratore
- Cassazione: conferma della legittimità del licenziamento e limiti al repêchage
- Principi giuridici riaffermati dalla Cassazione
- Conclusioni della sentenza: sì a indennità ma niente reintegra
- Tabella di sintesi della decisione
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Il datore di lavoro non è obbligato a creare nuove posizioni o a riorganizzare l'azienda per mantenere il dipendente, ma deve solo provare l’assenza di posti compatibili.
Il giudice, accertata la soppressione del ruolo, non può imporre il mantenimento di una posizione anche inferiore, poiché ciò rientra nella discrezionalità gestionale dell’imprenditore.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repêchage: nuova decisione della Cassazione
Il principio è stato richiamato dalla Corte di cassazione, Sezione lavoro, con ordinanza n. 1364 del 20 gennaio 2025, nel pronunciarsi su una controversia in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il caso esaminato
Nella specie, il lavoratore aveva contestato il licenziamento, sostenendo che l’azienda non avesse provato l’impossibilità della sua ricollocazione.
La vicenda giudiziaria ha attraversato diverse fasi processuali.
Inizialmente, la Corte d’Appello aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, riconoscendo al lavoratore un risarcimento, ma la Cassazione aveva annullato la decisione, chiarendo che la legittimità del recesso dipendeva dalla soppressione effettiva della posizione lavorativa.
Nel successivo giudizio di rinvio, la Corte d’Appello aveva confermato il licenziamento per violazioni procedurali, riducendo il risarcimento a dodici mensilità e disponendo la restituzione dell’eccedenza percepita.
Un nuovo intervento della Cassazione, a questo punto, aveva stabilito che spettava al datore di lavoro dimostrare l’inesistenza di alternative occupazionali.
In sede di riesame, la Corte d’Appello aveva accertato che tutte le posizioni compatibili erano occupate e che non vi erano state nuove assunzioni, confermando così l'applicazione della sola tutela indennitaria.
Il ricorso del lavoratore
Il lavoratore aveva successivamente impugnato la sentenza di legittimità, contestando tre aspetti:
- la violazione del giudicato, ritenendo che la Corte d’Appello avesse riesaminato fatti già accertati;
- l’errata comparazione tra lavoratori, sostenendo che si dovesse valutare la professionalità complessiva e non solo le mansioni svolte;
- l’insufficiente prova dell’impossibilità di ricollocazione, affermando che il datore di lavoro non aveva dimostrato con certezza l’assenza di alternative.
Cassazione: conferma della legittimità del licenziamento e limiti al repêchage
La Suprema Corte ha respinto l'impugnazione del ricorrente, ritenendo che la Corte d’Appello avesse correttamente accertato i fatti e applicato i principi stabiliti dalla precedente sentenza rescindente.
È stato confermato che il datore di lavoro aveva assolto l’onere probatorio, dimostrando che il posto di lavoro era stato effettivamente soppresso e che non vi fossero posizioni disponibili in cui il lavoratore potesse essere ricollocato.
Dalla documentazione in atti, in particolare, era emerso che tutte le posizioni compatibili con le competenze del lavoratore risultavano occupate e che, successivamente al licenziamento, non erano state effettuate nuove assunzioni per la medesima qualifica. Inoltre, era stato accertato che il ruolo del lavoratore non fosse fungibile con altre posizioni aziendali.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha ribadito che la comparazione tra lavoratori non può avvenire sulla base della sola sovrapponibilità delle mansioni, ma deve tenere conto della professionalità complessiva e dell’inquadramento contrattuale.
Principi giuridici riaffermati dalla Cassazione
Con questa decisione, la Corte di Cassazione ha consolidato alcuni principi chiave in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, principi a cui - come detto - ha ritenuto si fosse conformata la pronuncia della Corte d'Appello.
Ha ribadito, in primo luogo, che l’onere della prova circa l’impossibilità di repechage spetta esclusivamente al datore di lavoro e non al dipendente.
L’onere del datore di lavoro - è stato tuttavia precisato - si limita alla dimostrazione dell’inesistenza di posizioni vacanti compatibili con le mansioni del lavoratore, senza obbligo di estendere la ricerca ad altre funzioni non strettamente correlate, né si spinge a dover creare posizioni nuove o adibire il lavoratori a mansioni diverse dalla professionalità di riferimento.
Inoltre, è stato confermato che la scelta di sopprimere un determinato posto di lavoro rientra nelle prerogative dell’imprenditore e non può essere sindacata dal giudice, a patto che sia provata una reale riorganizzazione aziendale.
Il giudice, in tale contesto, non può imporre al datore di lavoro di modificare l’organizzazione aziendale per ricollocare il lavoratore, poiché tale prerogativa rientra nella discrezionalità gestionale dell’impresa.
Sul punto, la Corte ha richiamato il principio enunciato dalla giurisprudenza secondo cui:
"il datore di lavoro non è tenuto a creare nuove posizioni o a modificare l’organizzazione aziendale per conservare il posto al lavoratore, ma deve dimostrare solo l’assenza di posti liberi compatibili con la professionalità del dipendente, non potendo il giudice, una volta emersa la prova della soppressione del posto, imporre al datore di mantenere una posizione di lavoro anche inferiore, poiché si sostituirebbe all'imprenditore nel compito di organizzazione aziendale che a lui compete".
Conclusioni della sentenza: sì a indennità ma niente reintegra
La Cassazione, in conclusione, ha conferma la legittimità, sotto il profilo sostanziale, del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, riscontrando unicamente la sussistenza di una violazione procedurale.
Di conseguenza, è stato riconosciuto che il lavoratore avesse diritto esclusivamente alla tutela indennitaria di dodici mensilità di retribuzione, senza possibilità di reintegro nel posto di lavoro.
Lo stesso dipendente, inoltre, è stato condannato al pagamento delle spese processuali.
Tabella di sintesi della decisione
Sintesi del caso | Il lavoratore, responsabile vendite retail, è stato licenziato per giustificato motivo oggettivo. Ha contestato il licenziamento sostenendo che l’azienda non avesse dimostrato l’impossibilità della sua ricollocazione. |
Questione dibattuta | La questione principale riguardava l'onere della prova in merito alla possibilità di ricollocare il lavoratore. Il dipendente sosteneva che il datore di lavoro non avesse provato l’assenza di posizioni alternative, mentre l’azienda affermava che il licenziamento fosse legittimo per la soppressione del ruolo. |
Soluzione della Corte di Cassazione | La Corte di Cassazione ha stabilito che spetta al datore di lavoro dimostrare l’assenza di posizioni compatibili con la professionalità del dipendente, ma senza obbligo di creare nuove posizioni o riorganizzare l’azienda. Ha confermato la legittimità del licenziamento, riconoscendo solo la tutela indennitaria e non la reintegrazione. |
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