Tetto retributivo pubblico impiego: cosa cambia con la pronuncia della Corte costituzionale
Pubblicato il 29 luglio 2025
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Di notevole importanza la sentenza n. 135 del 28 luglio 2025 in cui la Corte costituzionale, pur ribadendo che la previsione di un tetto retributivo per i dipendenti pubblici non contrasta con la Costituzione, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13, comma 1, del decreto legge n. 66 del 2014 che lo ha determinato in 240.000,00 euro lordi anziché parametrarlo al trattamento economico onnicomprensivo spettante al primo presidente della Corte di cassazione.
Vediamo nel dettaglio i termini della questione.
Quadro normativo
Il quadro normativo oggetto della sentenza si fonda su due provvedimenti chiave:
- Decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, conosciuto anche come il cosiddetto “Salva Italia”, emanato in un contesto di grave crisi economica e finanziaria. All'art. 23-ter, comma 1, veniva introdotto un principio fondamentale: nessun dipendente o collaboratore della pubblica amministrazione può percepire una retribuzione annua complessiva superiore a quella spettante al primo presidente della Corte di cassazione. La misura, all’epoca, si giustificava come strumento di equità retributiva e contenimento delle uscite statali.
- Decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, con cui il legislatore ha deciso di quantificare esplicitamente il limite retributivo massimo stabilito nel 2011. All’art. 13, comma 1, del D.L. n. 66/2014, è stato fissato in 240.000 euro annui lordi l'importo massimo percepibile dai dipendenti pubblici, con una definizione precisa: “al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente”.
Questa norma ha rappresentato un passaggio importante nella trasformazione del tetto da parametro mobile a soglia fissa, sganciandolo dalla retribuzione effettiva del primo presidente della Cassazione e quindi anche dagli eventuali adeguamenti futuri legati all’inflazione o alla carriera.
Per i primi anni in cui la norma ha trovato applicazione essa è stata ritenuta non costituzionalmente illegittima poiché considerata, come accennato, una misura straordinaria e temporanea, giustificata dalla situazione di eccezionale crisi finanziaria in cui versava il Paese.
Con il trascorrere del tempo tale misura ha però perso quel requisito di temporaneità posto a tutela della indipendenza della magistratura e necessario ai fini della sua compatibilità costituzionale.
Le norme impugnate
Il Consiglio di Stato, sezione quinta, con ordinanza del 13 novembre 2024 ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in relazione agli articoli sopra menzionati.
Con riferimento all’art. 23-ter, comma 1 del D.L. 201/2011, il problema sollevato dal Consiglio di Stato riguarda la portata applicativa della norma, che include anche le indennità percepite da magistrati eletti in organi di autogoverno, attività che per loro natura hanno una dimensione rappresentativa e istituzionale, non meramente economica.
Ma è l’art. 13, comma 1 del D.L. 66/2014, e il relativo passaggio dal parametro mobile al tetto fisso di 240.000 euro, il punto di frizione principale.
Secondo il Consiglio di Stato, questa soglia rigida e non rivalutata nel tempo ha comportato una compressione non solo del trattamento economico, ma anche della libertà dei magistrati più anziani o con ruoli direttivi di candidarsi per incarichi rappresentativi, come quelli nei consigli di autogoverno.
Profili di presunta incostituzionalità
La motivazione principale alla base della rimessione alla Corte riguarda due aspetti costituzionali fondamentali.
Indipendenza della magistratura
L’indipendenza della magistratura, sia esterna (rispetto agli altri poteri dello Stato) sia interna (nelle dinamiche e nei processi decisionali), è un valore costituzionalmente protetto. La retribuzione dei magistrati, compresa quella accessoria legata alle funzioni aggiuntive, è parte di queste garanzie. Secondo il Consiglio di Stato, l’assoggettamento dell’indennità da componente di organo di autogoverno al tetto retributivo:
- riduce l’effettiva autonomia dei magistrati;
- espone a condizionamenti economici potenzialmente disincentivanti;
- incide negativamente sulla qualità e sul pluralismo della rappresentanza negli organi di governo autonomo.
Rappresentatività degli organi di autogoverno
Il tetto fisso, applicato anche alle indennità per incarichi elettivi nei consigli di autogoverno (come CPGA, CSM, ecc.), scoraggia i magistrati con retribuzioni elevate – spesso più esperti – dal candidarsi. La mancata percezione dell’indennità comporta un trattamento diseguale e penalizzante, soprattutto per coloro che già raggiungono il massimale retributivo nella loro funzione ordinaria.
I magistrati più anziani infatti, con incarichi direttivi e quindi con retribuzioni prossime al tetto massimo, non avrebbero alcun vantaggio economico nel candidarsi per incarichi negli organi di autogoverno, in quanto non percepirebbero l’indennità aggiuntiva. Questo effetto è stato definito dalla Corte come disincentivante, in aperto contrasto con i principi di autonomia e partecipazione democratica. Il rischio è quello di escludere proprio i profili più esperti e competenti, danneggiando così l’interesse pubblico.
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che questo effetto indiretto si traduce in un vulnus alla rappresentatività democratica all’interno della magistratura, alterando la composizione potenziale di tali organi e minando l’equilibrio interno della funzione giurisdizionale.
Il parere della Corte costituzionale
Nel motivare la propria decisione, la Corte ha offerto un’articolata ricostruzione della natura originaria della misura, del suo sviluppo normativo, e soprattutto della sua compatibilità con i principi costituzionali. Il ragionamento si è focalizzato su tre aspetti chiave: la trasformazione del tetto retributivo da parametro mobile a soglia fissa, la perdita della sua temporaneità, e la valutazione concreta del suo impatto economico.
Differenze tra tetto retributivo mobile e fisso
In origine, il tetto retributivo era concepito come un limite mobile, cioè agganciato a un parametro flessibile: la retribuzione del primo presidente della Corte di cassazione.
Questa impostazione si trovava nell’art. 23 ter, comma 1, del D.L. 201/2011, il quale stabiliva che il trattamento economico annuo complessivo per i lavoratori del settore pubblico non dovesse superare quello del più alto magistrato in carriera.
Questa soluzione presentava almeno due vantaggi costituzionali.
- Rispecchiava la gerarchia funzionale e istituzionale degli incarichi pubblici.
- Consentiva un adeguamento dinamico nel tempo, preservando il legame tra funzioni svolte e retribuzione percepita.
Con l’art. 13, comma 1, del D.L. 66/2014, il legislatore ha però sostituito il parametro mobile con una soglia fissa di 240.000 euro lordi annui, prescindendo dalla reale retribuzione del Primo Presidente della Cassazione. Secondo la Corte, questa modifica ha rotto l’equilibrio originario, generando effetti distorsivi nel sistema retributivo della pubblica amministrazione, e soprattutto nella magistratura.
Infatti, già nel 2014 il trattamento del Primo Presidente era superiore ai 310.000 euro lordi, come indicato in una circolare della Presidenza del Consiglio. La soglia fissa ha quindi comportato una riduzione effettiva della retribuzione per molti alti funzionari, in modo permanente e non parametrico.
La Corte ha dunque riconosciuto che, al momento della sua introduzione, il tetto retributivo trovava giustificazione costituzionale nella gravissima crisi finanziaria che colpiva l’Italia nel 2011, in piena emergenza da debito sovrano.
In quel contesto, era perciò legittimo introdurre misure straordinarie per contenere la spesa pubblica, inclusi limiti alle retribuzioni del personale statale.
Il carattere temporaneo della misura era quindi fondamentale per giustificarne la costituzionalità: si trattava di un intervento eccezionale, motivato da ragioni di stabilità macroeconomica e di interesse generale.
Tuttavia, a partire dal 2022, il legislatore ha introdotto numerose deroghe al tetto retributivo, svuotandolo progressivamente della sua generalità e rendendolo una misura strutturale ma non universale.
- Art. 34, comma 1, lettera d) del D.L. 73/2022, che ha consentito ai commissari di Sogin S.p.A. di percepire compensi superiori al tetto.
- Articoli 13-bis e 14 del D.L. 104/2023, che hanno escluso dal limite massimo retributivo i dipendenti delle società pubbliche strategiche.
Secondo la Corte, l’effetto cumulativo di queste deroghe ha quindi infranto il principio di uguaglianza e coerenza normativa, trasformando il tetto in una misura parziale e selettiva, non più giustificata da un’emergenza comune a tutta la pubblica amministrazione.
Inoltre, la mancanza di un meccanismo di rivalutazione automatica al tasso di inflazione ha accentuato il carattere penalizzante e regressivo della soglia fissa, specie a distanza di oltre dieci anni dalla sua introduzione.
Valutazione dell’impatto economico reale
Uno dei punti centrali del ragionamento della Corte riguarda l’effettiva utilità finanziaria del tetto retributivo. Fin dalla sua introduzione, il legislatore aveva motivato la misura con la necessità di ottenere risparmi di spesa rilevanti, da destinare al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del D.L. 201/2011).
Tuttavia, i dati concreti raccolti dalla Corte mostrano un impatto molto limitato. Nel primo anno di applicazione (2015), a fronte di un’aspettativa di circa 86 milioni di euro, furono versati nel fondo solo 4,5 milioni di euro. Negli anni successivi, i versamenti annuali non hanno mai superato i 18,9 milioni.
Questi risultati portano la Corte a due osservazioni critiche.
- L’impatto macroeconomico della misura è marginale, in rapporto alla spesa complessiva della pubblica amministrazione.
- Il sacrificio imposto a categorie chiave dello Stato, come la magistratura, non è più proporzionato all’obiettivo di finanza pubblica, violando il principio di ragionevolezza e bilanciamento tra interessi.
Inoltre, la Corte sottolinea un effetto collaterale particolarmente grave: il tetto retributivo ha scoraggiato l’assunzione di incarichi aggiuntivi da parte dei funzionari meglio retribuiti, soprattutto nel settore della giustizia. In particolare, i magistrati con funzioni direttive, già vicini alla soglia dei 240.000 euro, non avevano alcun incentivo economico ad accettare incarichi in organi di autogoverno (come il CSM o il CPGA), perché l’indennità loro spettante veniva assorbita dal tetto.
Questo ha avuto conseguenze negative sulla partecipazione democratica, sull’efficienza degli organi collegiali e sulla qualità dell’amministrazione della giustizia. La Corte definisce questo fenomeno un danno indiretto ma concreto alla funzionalità dello Stato di diritto.
Per queste ragioni, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 13, comma 1, del D.L. 66/2014 nella parte in cui fissa una soglia retributiva assoluta di 240.000 euro, ordinando il ritorno al meccanismo originario, commisurato alla retribuzione del primo presidente della Corte di cassazione, e auspicando un futuro intervento legislativo più equilibrato.
In breve
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Numero sentenza |
135/2025 |
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Data decisione |
9 luglio 2025 |
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Oggetto del giudizio |
Legittimità costituzionale del tetto retributivo per dipendenti pubblici, con riferimento ai magistrati |
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Norme impugnate |
Art. 23 ter, comma 1, D.L. 201/2011 |
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Giudice rimettente |
Consiglio di Stato – Sezione quinta |
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Motivo della censura |
Inclusione dell’indennità di funzione nel tetto retributivo ha effetti negativi su indipendenza della magistratura e rappresentatività degli organi di autogoverno |
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Parametri costituzionali violati |
Art. 101, 104, 108 Cost.: indipendenza magistratura |
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Esito sul D.L. 201/2011, art. 23-ter |
NON costituzionalmente illegittimo – mantiene riferimento mobile al trattamento del Primo Presidente della Cassazione |
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Esito sul D.L. 66/2014, art. 13, c. 1 |
Dichiarato incostituzionale nella parte in cui stabilisce un tetto fisso di €240.000 anziché un parametro mobile |
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Ragioni dell’illegittimità |
- Tetto fisso non adeguato all’inflazione |
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Effetti della pronuncia |
La norma è annullata solo per il futuro, dal giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (no retroattività) |
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Valore sostitutivo provvisorio |
Si torna al parametro della retribuzione del Primo Presidente della Corte di Cassazione (circa €311.658,53 nel 2014) |
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Indicazioni al legislatore |
La Corte invita il Parlamento a riformare il tetto retributivo tenendo conto dell’equilibrio tra contenimento della spesa e tutela dei principi costituzionali |
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