I giudici considerano solo il certificato di inattività? Motivazione carente

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La Corte di cassazione, con la sentenza n. 41686 del 7 ottobre 2014, ha annullato una decisione con cui la Corte d'appello aveva confermato la colpevolezza del legale rappresentante di una Srl in ordine al reato di dichiarazione infedele.

All'imputato era stato addebitato di avere indicato, con riferimento all'anno di imposta 2005, elementi attivi di ammontare inferiore a quello effettivo facendo rientrare nel regime delle plusvalenze esenti ex art. 87 del TUIR, le cessioni di quote di partecipazione della società da lui rappresentata.

La Corte d'appello, in particolare, aveva ritenuto provata la sussistenza del reato fiscale sulla base di una certificazione della Camera di commercio da cui risultava che la società partecipata era inattiva.

Omessa valutazione dei rilievi dell'impugnazione

La Suprema Corte ha, tuttavia, ribaltato la decisione evidenziando che i giudici di merito, nel dare rilievo unico e decisivo alle risultanze di detta certificazione, avevano del tutto omesso di valutare criticamente i rilievi mossi dall'imputato per dimostrare il fatto che la Srl si fosse occupata di un fallimento attraverso attività di gestione della controllata Spa.

Requisito di commercialità

E secondo i giudici di legittimità, la Corte d'appello avrebbe dovuto porsi il problema della commercialità attraverso un criterio sostanziale finalizzato ad accertare “se vi fosse una struttura operativa idonea, anche potenzialmente, alla produzione e/o commercializzazione di beni o di servizi”.
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  • ItaliaOggi, p. 30 – Società di comodo, prova più difficile - Alberici

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