Mobbing, la dequalificazione non è sufficiente

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L'elemento qualificante del mobbing non va ricercato nell'illegittimità dei singoli atti posti in essere dal datore di lavoro, bensì nell'intento persecutorio che li unifica, sicché la mera dequalificazione o le plurime condotte illegittime del datore di lavoro non sono condizione sufficiente per configurare la siffatta ipotesi, essendo necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori elementi concreti, che i comportamenti datoriali siano frutto di un disegno persecutorio unificante e preordinato alla prevaricazione.

Tali conclusioni, giunte con l'ordinanza della Corte di Cassazione 4 marzo 2021, n. 6079, a seguito di ricorso proposto dal lavoratore in opposizione alle sentenze dei giudici di merito, confermano quanto evidenziato dalla Corte d'Appello e dalla giurisprudenza secondo cui ai fini della configurabilità della condotta lesiva rilevano i seguenti elementi:

  • la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o leciti, posti in modo sistematico e prolungato nel tempo con intento vessatorio;
  • la compromissione della salute o della personalità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico ed il pregiudizio all'integrità psico-fisica del prestatore;
  • la prova dell'intento persecutorio.

Certamente, l'onere della prova, in applicazione del principio di cui all'art. 2697, Cod. Civ., ricade sul lavoratore che deve provare rigorosamente la sistematicità della condotta e la sussistenza dell'intento emulativo o persecutorio.

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