Dimissioni inefficaci: conseguenze

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Dimissioni inefficaci: conseguenze

Il recesso del lavoratore quale atto personalissimo

Il recesso del lavoratore dal rapporto di lavoro costituisce un atto personalissimo, sicché gli adempimenti di cui al DM del 15/12/2015 debbono essere materialmente eseguiti dal recedente. Ove quest’ultimo si trovi nell’incapacità o nell’impossibilità di eseguire tali incombenze, l’art. 26 comma 4 del D.lgs. n. 151/2015 riconosce al lavoratore la facoltà di farsi assistere dagli organismi sindacali, dagli enti bilaterali, dai patronati ovvero dalle commissioni di certificazione. La violazione del precetto è sanzionata dalla norma con l’inefficacia dell’atto risolutorio. Con il presente contributo si tratta di verificare quali conseguenze comporti l’inefficacia sulla sorte del rapporto di lavoro.

Il lavoratore non effettua la procedura telematica: conseguenze

In prima battuta, pare logico osservare che l’inefficacia del recesso comporti la mancata estinzione del rapporto di lavoro. D’altronde, alla domanda volta a conoscere come il datore di lavoro debba comportarsi se il lavoratore, nonostante i solleciti, non compili la procedura on-line, il Ministero del Lavoro, con le FAQ pubblicate l’8 aprile 2016, ha affermato che, stante l’esclusività della procedura telematica, l’unica soluzione percorribile per la parte datoriale è quella di “rescindere” dal rapporto di lavoro. A parte che non si tratta di rescindere il contratto, ma, semmai, di risolvere il rapporto di lavoro mediante licenziamento, vale osservare che tale prospettazione sottende che, in assenza di un’iniziativa del datore di lavoro volta a interrompere l’inerzia del lavoratore, il relativo rapporto non si estingue, ma continua a dispiegare i propri effetti. Si aggiunga che, in tale ipotesi, l’estinzione del rapporto di lavoro non è conseguibile dal datore di lavoro inviando, al Servizio per l’Impiego, il modello UNILAV, con la causale dimissioni, giacché queste ultime possono essere effettuate esclusivamente dal lavoratore mediante la procedura telematica. La soluzione, se può sembrare gravosa, anche in ragione del contributo Aspi cui è tenuto il datore di lavoro per il caso di licenziamento, sul piano tecnico appare ineccepibile. Va caso mai sottolineato che l’art. 1 comma 6 lett. g) della L. n. 183/14 ha delegato il Governo a legiferare in materia di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro anche al fine di “[…] assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore”. Ma sul punto non pare la delega sia stata attuata. Sicché, alla luce dell’attuale assetto normativo, non pare che sia possibile pervenire a scelte esegetiche diverse rispetto a quelle prospettate dal Ministero del Lavoro, a meno che si prediligano interpretazioni additive del testo normativo.

Inefficacia delle dimissioni: casistica

In ogni caso, il punto centrale della tematica è che l’inefficacia delle dimissioni o dell’accordo risolutorio, indipendentemente dalla causa invalidante, determina la mancata estinzione del rapporto di lavoro. Senza pretesa di esaustività, si possono così prospettare i seguenti scenari, che sono mutevoli anche in ragione della consapevolezza delle parti circa l’invalidità che affligge l’atto risolutorio.

  • Il lavoratore abbandona il posto di lavoro senza compilare la procedura telematica. In tale evenienza, come sopra descritto, incombe sul datore di lavoro l’onere di estinguere il rapporto di lavoro, mediante licenziamento. Diversamente il lavoratore è considerato ancora in forza all’organico aziendale e il datore di lavoro è tenuto ad assolvere gli adempimenti amministrativi del caso, catalogando l’omessa prestazione lavorativa come assenza ingiustificata. La mancata scritturazione del rapporto nei documenti aziendali (es. LUL) è passibile di sanzione amministrativa. 
  • L’ipotesi testé descritta ricorre anche laddove il lavoratore, dopo avere abbandonato il posto di lavoro, trovi un’altra occupazione. Vero è che generalmente in occasione di nuove assunzioni, i datori di lavoro chiedono al lavoratore il modello storico del dipendente (C2). Un modello che reca l’instaurazione del rapporto di lavoro, ma non anche la sua cessazione, può costituire un freno all’assunzione. Tuttavia al verificarsi di tale fattispecie, essendo ammissibile instaurare più rapporti di lavoro, il lavoratore viene considerato parte di un duplice rapporto di lavoro: l’uno imputato al “precedente” datore di lavoro, l’altro al “nuovo” datore di lavoro.

La prospettiva muta radicalmente qualora i datori di lavoro, ai quali vengono ascritti i rapporti di lavoro, si trovino tra loro in rapporti di controllo o di colleganza societaria o comunque si trovino in regime di “affiliazione aziendale”. L’ipotesi è quella per cui le dimissioni o l’accordo risolutorio, per qualsivoglia ragione inefficaci, siano stati posti in essere per conseguire una traslazione del contratto di lavoro dal primo al secondo datore di lavoro. Al riguardo è possibile supporre le seguenti opzioni:

  1. l’atto negoziale di recesso dal rapporto di lavoro e l’accordo di instaurazione di nuovo rapporto di lavoro possono essere avvinti da collegamento negoziale volto a realizzare un fine comune: la modifica soggettiva e oggettiva del rapporto. Nel cercare di sintetizzare la complessa tematica del collegamento negoziale si può riprendere la definizione che del fenomeno è stata data dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il collegamento negoziale è caratterizzato da una pluralità di fattispecie negoziali coordinate che conservano ciascuna una propria causa e che sono poste in essere per assolvere a una finalità economicamente unitaria (Cass. civ. Sez. lavoro, 04/11/2015, n. 22513). In tale senso, il collegamento negoziale è espressione dell’autonomia contrattuale, riconosciuta espressamente alle parti dall’art. 1322 c.c. e che postula la libertà di costoro di concludere contratti tipici o atipici, anche in regime di coordinamento, purché l’operazione complessiva risulti diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico. Il negozio collegato si atteggia così a strumento di regolamento degli interessi economici delle parti e che potrebbe risultare caratterizzato da un rapporto di reciproca dipendenza negoziale in virtù del quale, e in applicazione del principio simul stabunt vel simul cadent, le vicende che investono un atto (invalidità, inefficacia, risoluzione ecc.) vengono a ripercuotersi sull’altro (cfr. Cass. civ. Sez. III, 12/07/2005, n. 14611, per un’applicazione del seguente principio cfr. Cass. civ. Sez. III, 21/12/2015, n. 25610 per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Perugia, sezione staccata di Assisi, 25/03/2014). L’individuazione del collegamento negoziale è un’indagine di fatto che in sede giurisdizionale è prerogativa del Giudice di merito, mentre in sede amministrativa è specificamente ispettiva, un’attività demandata agli ispettori del lavoro. Questi ultimi sono tenuti in particolare ad appurare se il concreto interesse perseguito mediante gli atti negoziali tenda a un risultato unitario e che sia meritevole di tutela dall’ordinamento a prescindere poi dalla consapevolezza o meno che le parti possano avere sulla validità dell’operazione (secondo una valutazione oggettiva). Proprio con riferimento a tale indagine va evidenziato che l’alto tasso di inderogabilità, che contrassegna la disciplina del lavoro lascia poco spazio alle parti per creare collegamenti negoziali, che non si risolvano poi in un’elusione della predetta normativa. Però, per singolari ipotesi e anche in ragione della peculiarità delle qualifiche lavorative e dei moderni contesti aziendali, non pare corretto sul piano dogmatico escludere, in astratto e a priori, la meritevolezza di operazioni in cui l’atto di recesso dal rapporto di lavoro sia funzionalmente collegato a un nuovo accordo occupazionale. E ciò anche qualora il recesso avvenga, non per mutuo dissenso, ma, stante la previsione di cui all’art. 1324 c.c., per dimissioni del lavoratore. Sicché, ove gli atti siano avvinti da un nesso di reciproca dipendenza, appare ragionevole ritenere che le vicende che investono il recesso (invalidità, inefficacia, risoluzione ecc.) si ripercuotano anche sulla successiva assunzione, determinando assetti incidenti sulla stessa titolarità del rapporto di lavoro. Quest’ultimo, infatti, andrà ascritto tra il lavoratore e il datore di lavoro destinatario del recesso, la cui inefficacia, giustappunto, preclude al successivo e collegato accordo di assunzione di dispiegare i propri effetti. La circostanza per cui, conseguentemente all’atto risolutorio, la prestazione di lavoro risulti eseguita in favore del nuovo datore di lavoro non sembra possa avere alcuna valenza sanante sul nuovo accordo di lavoro. Anzi, la scissione tra datore di lavoro, titolare del rapporto di lavoro, e soggetto terzo, fruitore della prestazione di lavoro, configura, a ben vedere, quella disarticolazione tipica della somministrazione di lavoro. Essendo però tale disarticolazione realizzata in assenza dei requisiti normativi di cui agli artt. 30 e ss. del D.lgs. n. 81/15, la fattispecie configura una forma interpositoria vietata e, all’esito della depenalizzazione realizzata con D.lgs. n. 7/16, sanzionata in via amministrativa.
  2. A conclusione non diversa, comunque, si giunge anche qualora il collegamento negoziale testé descritto sia tacciato di illiceità, perché diretto a realizzare finalità elusive ai vincoli imposti con precetti imperativi (es. ad aggirare la normativa in tema di licenziamenti e sui costi previsti anche dall’art. 2 comma 31 della L. n. 92/12, ovvero a creare delle cesure nelle anzianità di servizio del dipendente o incidere su aspetti che interessano l’erogazione del TFR, ovvero a eludere l’art. 1406 c.c. ovvero la disciplina di cui all’art. 2112 c.c.). In tale ipotesi, al di là dell’efficacia o meno dell’atto di recesso e dell’eventuale incidenza di quest’ultimo sul successivo accordo di assunzione, è tutta l’operazione che viene a essere colpita da nullità per violazione dell’art. 1344 c.c. L’invalidità, tanto del recesso, quanto del successivo accordo occupazionale, porta a escludere ogni modificazione soggettiva e oggettiva del rapporto di lavoro. Sicché, ove la prestazione dedotta in contratto venga eseguita in favore di un soggetto diverso dal proprio datore di lavoro, al quale, in conseguenza della nullità, viene imputata la titolarità del rapporto di lavoro, si ricade nuovamente in quella scissione suscettibile di integrare l’interposizione illecita di manodopera.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale.

 

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