Inammissibilità della questione di legittimità sui licenziamenti collettivi

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Inammissibilità della questione di legittimità sui licenziamenti collettivi

La Corte Costituzionale, con la sentenza depositata il 26 novembre 2020, n. 254, dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d'Appello di Napoli per insufficiente motivazione del giudice sulla rilevanza e per l'incerta richiesta di un intervento correttivo della Consulta, per quanto concerne i licenziamenti collettivi in violazione dei criteri di scelta ed, in particolare, del combinato disposto degli artt. 10 e 3 del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23.

Il giudice adito, inoltre, aveva proposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'UE, ritenendo riconducibile la fattispecie alle "competenze normative dell'Unione" potendosi invocare le disposizioni dell'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) secondo cui è riconosciuto il diritto ai lavoratori alla tutela contro il licenziamento ingiustificato ristorabile con un congruo indennizzo o in un'altra misura ritenuta adeguata.

Dopo la dichiarazione di manifesta irricevibilità del ricorso del 4 giugno scorso da parte della Corte di Strasburgo, secondo cui non sussiste alcun collegamento fra la disciplina nazionale in questione (criteri di scelta nell'ambito dei licenziamenti collettivi) e un atto di diritto dell'Unione - non potendosi, dunque, esprimere sull'asserita violazione -, la Corte di Costituzionale, oltreché ribadire il legame inscindibile tra il ruolo della Corte di giustizia dell'Unione Europea e il ruolo dei giudici nazionali volto a garantire una leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni richiamate, ribadisce la consonanza già rilevata dai giudici europei e dichiara inammissibile il ricorso incidentale proposto per carenza di rilevanza e per l'incerta richiesta di intervento formulata alla Consulta.

Invero, in ordine alla rilevanza:

  • il giudice a quo si è limitato a puntualizzare che il rapporto di lavoro è successivo al 7 marzo 2015 e, in quanto tale, è assoggettato alla disciplina dell'art. 3, Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che regola le conseguenze sanzionatorie nel caso di accoglimento delle domande. Al riguardo, la declaratoria di legittimità costituzionale implica un cambiamento del quadro normativo assunto dal giudice rimettente e, in tal prospettiva, deve trovare conferme nella rilevanza delle questione proposte che il giudice a quo è chiamato ad illustrare con motivazioni non implausibili;
  • la questione di costituzionalità non deve attenere all'utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare, bensì alla necessità di applicare disposizioni censurate dal percorso logico-giuridico rilevato da colui a cui compete la decisione;
  • per quanto attiene all'impugnazione sull'inosservanza dei criteri di scelta e, in via subordinata, del mancato rispetto delle procedure, il giudice di seconde cure omette le ragioni che inducono a privilegiare l'inquadramento della vicenda controversa nella prima delle fattispecie dedotte in ricorso e, pertanto, a censurare la relativa disciplina sanzionatoria, comparandola, quanto a efficacia dissuasiva, a quella antecedente. In particolare, la Corte rimettente non offre alcun ragguaglio sulle ragioni che fondano l'illegittimità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta, inducendo a disattendere valutazioni di segno contrario espresse già dal giudice di primo grado. Peraltro, relativamente alla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti individuali viziati sotto il profilo sostanziale (sentenza n. 194/2018) o dal punto di vista formale/procedurale (sentenza n. 150/2020) la Consulta ha avuto modo di scrutinare il merito delle censure anche alla luce dell'argomentazione esaustiva posta dai giudici a quibus che hanno, di volta in volta, illustrato le ipotesi di illegittimità dei licenziamenti impugnati e la necessità di applicare la corrispondente disciplina di protezione. Per tale ultimo assunto, ancorché noto che il dubbio di costituzionalità verte sulle conseguenze sanzionatorie previste nel caso di accoglimento delle domande, il rimettente trascura di descrivere la fattispecie concreta e di allegare elementi idonei a corroborare l'accoglimento dell'impugnazione in virtù di una violazione dei criteri di scelta, dovendo, invece, preventivamente individuare i vizi del licenziamento collettivo impugnato.

In ordine all'incertezza dell'intervento richiesto alla Corte:

  • dalla formulazione proposta dal giudice a quo non appare rilevabile se il rimettente prefiguri l'integrale caducazione dell'art. 10, Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui sanziona la violazione dei criteri di scelta ovvero intenda ottenere l'allineamento del contenuto precettivo di tale previsione alle disposizioni di cui all'art. 5, comma 3, terzo periodo, della Legge 23 luglio 1991, n. 223;
  • rimane irrisolta la questione, affidata al legislatore, tra il ripristino della tutela reintegratoria o la rimodulazione della tutela indennitaria accentuata in chiave deterrente.

Per quanto sopra, i giudici costituzionali dichiarando inammissibili le questioni di legittimità sollevate - preclusive dell'esame del merito - rilevano, altresì, che - in conformità alla giurisprudenza della Consulta e delle fonti internazionali evocate dal medesimo giudice a quo - molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire un'adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato potendo essere diversamente ed ampiamente modulate entrambe le tipologie di tutele prescelte - reintegratoria o indennitaria - idonee a dare attuazione agli artt. 4 (diritto al lavoro) e 35 (diritto alla tutela del lavoro) della Costituzione la cui discrezionalità ricade in capo al legislatore.

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