La denuncia del lavoratore non legittima il licenziamento disciplinare

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La denuncia del lavoratore non legittima il licenziamento disciplinare

la Corte di Cassazione ha escluso la legittimità del licenziamento per giusta causa del lavoratore che aveva denunciato, alle Autorità competenti, il proprio datore di lavoro per violazioni inerenti alla disciplina lavoristica. Secondo la S.C. la denuncia di fatti di reato ascritti al datore non integra un motivo plausibile per fondare il recesso dal rapporto di lavoro, a meno che l’indagine svolta non dimostri il carattere calunnioso della denuncia stessa.
La decisione suscita interesse perché stabilisce se possa assumere rilievo disciplinare, ed eventualmente a quali condizioni e in quali limiti, la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o all’autorità amministrativa, nel caso all’Ispettorato del lavoro, fatti illeciti commessi dal proprio datore.

I fatti di causa

Un lavoratore dipendente segnalava alla Procura della Repubblica di Velletri e al Ministero del Lavoro l’utilizzo non corretto da parte del datore della cassa integrazione guadagni, correlando tale illecito a violazioni inerenti alla disciplina sull’orario di lavoro e alla materia di intermediazione di manodopera.Le indagini preliminari e l’ispezione amministrativa escludevano però la sussistenza degli illeciti oggetto di denuncia. Su tale presupposto l’azienda licenziava in tronco il dipendente per lesione del vincolo fiduciario.
Il giudice di primo grado, adito dal lavoratore, rigettava il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento.
La sentenza veniva confermata anche dalla Corte d’appello, la quale, stante l’esito negativo delle indagini, ribadiva l’avvenuta irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, osservando, a tal proposito, che il diritto di critica non legittima il lavoratore ad intraprendere iniziative atte a ledere l’immagine e il decoro del datore di lavoro. Corollario di tale assunto, esplicitato dal collegio giudicante, è che il lavoratore prima di sollecitare l’intervento delle autorità deve sincerarsi della verità di quanto denunciato e agire con maggiore prudenza e moderazione, evitando comunque di utilizzare termini lesivi della reputazione della società.
Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, ritenendo, fra i vari motivi di ricorso, violati gli artt. 2104, 2105 e 2106 c.c..

Le motivazioni della sentenza n. 415 del 2017

Investita della questione la Corte di Cassazione ha dissolto tutto il ragionamento posto alla base dell’impugnata sentenza, ritendo come la motivazione addotta violi, non solo, e non tanto, l’indirizzo giurisprudenziale formatosi sulla rilevanza disciplinare ascrivibile alle denunce presentate dal lavoratore per fatti illeciti aziendali, ma anche e soprattutto il concetto stesso di fiducia, su cui gravita il rapporto di lavoro.

La calunnia come fatto giustificativo del recesso disciplinare

Con riferimento alla denuncia del lavoratore, la S.C. richiama l’orientamento secondo il quale, salve le ipotesi di calunnia, la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale, accaduti nell’azienda, non integra di per sé giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 14/03/2013, n. 6501).
La calunnia è un reato previsto dall’articolo 368 c.p., che punisce con la reclusione da due a sei anni salve aggravanti, colui che mediante denuncia diretta all’Autorità Giudiziaria o ad altra Autorità che a questa abbia l’obbligo di riferirne (es. Ispettorato del lavoro) incolpa taluno di un reato, ovvero simula, a carico di costui, tracce di un reato nella consapevolezza della sua innocenza.
Oggetto della falsa incolpazione deve necessariamente essere un reato. Nel caso trattato dalla sentenza il fatto ascritto dal lavoratore al datore sembrava configurare gli estremi della truffa, generata dall’utilizzo contra legem della cassa integrazione.
Sul piano dell’elemento soggettivo, la fattispecie richiede il dolo dell’agente. Quest’ultimo deve essere consapevole della falsa incolpazione e quindi dell’innocenza dell’incolpato. Ciò significa, vendo al caso trattato dalla Suprema Corte, che il lavoratore deve avere cognizione piena della condotta illecita del datore.
Tale circostanza non sempre ricorre, se non altro perché i lavoratori, salvo coloro che ricoprono ruoli apicali o di diretta collaborazione con i vertici aziendali, difficilmente riescono ad acquisire e decifrare documentazione o informazioni aziendali dimostrative della commissione di illeciti penali da parte dell’azienda.
Spesso l’idea che il datore di lavoro tenga condotte lesive di interessi presidiati da sanzioni penali è dettata da una concezione pervasiva della materia de qua, che poi non corrisponde alla realtà dell’ordinamento (c.d. principio di tipicità e frammentarietà). In altre parole, non rileva la cognizione soggettiva del lavoratore sulla condotta datoriale, essendo piuttosto necessario che i fatti ascritti a quest’ultimo integrino giuridicamente un fattispecie penale, giacché ove configurino illeciti civili o amministrativi, non sarà ipotizzabile il reato di calunnia e, sotto tale aspetto, neppure una responsabilità disciplinare del lavoratore.

La tenuta del vincolo fiduciario in caso di acquisizione dei documenti aziendali da parte del lavoratore

Per quanto riguarda l’acquisizione da parte da lavoratore della documentazione aziendale allegata all’esposto o alla denuncia, la S.C. recentemente ha escluso che tale condotta confligga con la previsione di cui all’art. 2105 c.c., che vieta al lavoratore di divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa o di farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che “non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’avere il dipendente allegato alla denuncia o all’esposto presentati all’Autorità Giudiziaria documenti aziendali, aventi ad oggetto fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda” (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 14/03/2013, n. 6501).
Di medesimo tenore è il principio, sempre affermato dalla S.C., in base quale “il licenziamento intimato al lavoratore per violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art 2105 c.c. - avendo questi prodotto in giudizio fotocopie di documenti aziendali - è illegittimo, stante la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze di segretezza aziendali, così come sancito anche dalla normativa che tutela il diritto alla riservatezza” (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 07/12/2004, n. 22923).
Vero è però che tale indirizzo non appare univoco, perché mediato da altro orientamento che sposta l’indagine sulle modalità con le quali il lavoratore è venuto in possesso della documentazione o delle informazioni aziendali. Segnatamente, ove tale acquisizione concretizzi ipotesi delittuose o comunque contravvenga ai canoni di correttezza e buona fede, la condotta del lavoratore, secondo tale orientamento, sarebbe comunque idonea a ledere il vincolo fiduciario e conseguentemente il datore di lavoro risulterebbe legittimato a recedere dal rapporto per giusta causa (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 08/08/2016, n. 16629, in senso analogo Cass. civ. Sez. lavoro, 07/12/2004, n. 22923).
Appare utile sottolineare che quest’ultimo filone giurisprudenziale concentra l’indagine sulla legittimità o meno del licenziamento sui modi e sulle forme con le quali il lavoratore abbia acquisito la documentazione aziendale a nulla rilevando, a tal fine, se la condotta de qua integri o meno anche gli estremi della calunnia.

Vincolo fiduciario non significa dovere di omertà

La sentenza n. 415, qui in esame, non si sofferma sulle forme di impossessamento della documentazione e sui risvolti disciplinari, sottolineando invece che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., letto in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., non può essere inteso nel senso di imporre al lavoratore un obbligo di astensione nella denuncia di fatti illeciti asseritamente consumati all’interno dell’azienda.
Diversamente opinando, evidenza la S.C. “[…] si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di ‘dovere di omertà’ (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento”.
Il corollario che la sentenza trae da tale assunto è che il potere di denuncia “non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza della insussistenza dell’illecito o della estraneità allo stesso dell’incolpato”.

Gli interessi superindividuali sottesi al rapporto di lavoro

Ciò che si coglie poi nella pronuncia è l’idea che il rapporto di lavoro non è una relazione che esaurisce i propri effetti nella sfera del lavoratore e del datore di lavoro. A tale riguardo viene riconosciuta apertis verbis l’immanenza di interessi pubblici superiori nelle norme che disciplinano il vincolo negoziale. Tali interessi, secondo la S.C., risultano tutelati anche da quelle disposizioni per le cui violazioni sono previste sanzioni amministrative.
Orbene, proprio la valorizzazione e la tutela di tali interessi conferisce alle attività propedeutiche alle indagini, quali le denunce, gli esposti, le querele, una sorta di immunità rispetto a eventuali reazioni ritorsive commesse dal datore per conseguire la risoluzione dal rapporto di lavoro. A giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro non potranno soccorrere neppure eventuali provvedimenti assolutori o di archiviazione, adottati dalle autorità competenti all’esito delle indagini, giacché tali circostanze, in assenza di comportamenti del lavoratore atti a divulgare i fatti, non possono considerarsi sufficienti a dimostrare il reato di calunnia.

Conseguenze sul piano ispettivo

Sul piano operativo la motivazione della sentenza sembra suggerire un criterio di indagine al personale ispettivo.
Poiché l’attività ispettiva intrapresa all’esito di denuncia non muta la propria natura di azione volta a saggiare la corretta osservanza, ad opera delle parti (datore di lavoro e lavoratore), delle norme di disciplina del rapporto di lavoro, si ritiene che rientrino nel tema di indagine anche le seguenti circostanze:

  1. l’eventuale divulgazione che possa aver dato il lavoratore ai fatti illeciti ascritti al datore e indicato nella denuncia (es. utilizzando anche i canali di diffusione interattivi come facebook, twitter, email);
  2. il grado di cognizione normativa del lavoratore nella vicenda oggetto di denuncia.

Invero, ove le accuse mosse al datore siano di natura penale, ma le indagini abbiano portato a provvedimenti di archiviazione o di assoluzione, il datore di lavoro, sulla base degli atti ispettivi, potrebbe valutare se alla base della denuncia vi fosse o meno un intento calunnioso del lavoratore, acquisendo altresì contezza sulla pubblicizzazione data all’esposto. Infatti, solo l’eventuale ricorrenza di tali circostanza potrebbe giustificare da parte di costui una cesura del rapporto di lavoro per lesione del vincolo fiduciario.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo dell’opinione degli autori e non impegnano l’amministrazione di appartenenza
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