Lavoro nero: il nuovo regime sanzionatorio

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Lavoro nero: il nuovo regime sanzionatorio

Il 24/09/2015 è entrato in vigore il D.lgs. n. 151/15, attuativo della legge delega n. 183/2014 (c.d. Jobs Act), e recante misure per la “razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità”.

Rilevanti le novità introdotte dal Legislatore, a cominciare dalle modifiche apportate al regime sanzionatorio previsto per il lavoro nero.

Viene confermata l’impostazione del disegno di legge in ordine all’introduzione di sanzioni articolate per fasce, applicabili in relazione all’entità dei giorni di effettivo lavoro in nero.

L’art. 22, comma 2 del decreto, infatti, prevede che l’importo della sanzione per lavoro nero sia così suddiviso:

  • da euro 1.500 a euro 9.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore sino a trenta giorni di effettivo lavoro;

  • da euro 3.000 a euro 18.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore da trentuno e sino a sessanta giorni di effettivo lavoro;

  • da euro 6.000 a euro 36.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore oltre sessanta giorni di effettivo lavoro.

L’applicazione delle fasce è condizionata dall’entità dei giorni di effettivo impiego in nero del lavoratore. Ciò significa che dal periodo complessivo di occupazione in nero dovranno essere defalcate le giornate in cui il lavoratore non ha svolto effettivamente attività di lavoro (es. la domenica ove il lavoratore non abbia materialmente lavorato).

L’accertamento assume contenuti non semplici, perché spesso dalle dichiarazioni rilasciate in occasione delle verifiche ispettive si riesce a individuare un periodo di occupazione in nero, mentre è difficile risalire all’entità delle giornate di effettiva occupazione. Sotto tale aspetto, il Legislatore non sembra che abbia compiuto passi in avanti rispetto alla pregressa disciplina, dove l’ammontare della sanzione fissa per occupazione in nero era arricchita da un’ulteriore sanzione di importo ridotto e variabile in relazione alle singole giornate effettive di lavoro.

Si tratta allora di comprendere quali conseguenze possano scaturire nell’ipotesi in cui il verbale ispettivo, sul presupposto di un erroneo conteggio delle giornate effettive di lavoro nero, applichi una fascia sanzionatoria sbagliata in luogo di quella corretta.

È onere del trasgressore, destinatario del verbale, presentare all’istituendo Ispettorato Nazionale del lavoro, scritti difensivi atti a evidenziare l’errore commesso in sede di computo delle giornate.

Ove tale censura si dimostri fondata, l’entità della sanzione irrogata potrà essere emendata, con applicazione della fascia corretta, in sede di adozione dell’ordinanza ingiunzione ex art. 18 della L. n. 689/81.

Il problema semmai è l’ipotesi in cui anche l’ordinanza ingiunzione non applichi la corretta fascia sanzionatoria. In tale caso ci si chiede se l’errore, rilevato in sede di opposizione ex art. 22 della L. n. 689 cit., possa determinare la caducazione integrale del provvedimento, ovvero se l’organo giudicante abbia il potere di rimodulare la sanzione, applicando la corretta fascia sanzionatoria e garantire così la salvezza del provvedimento.

Costituisce ormai ius receptum l’orientamento giurisprudenziale per cui “in tema di sanzioni amministrative, l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione non configura un’impugnazione dell’atto, ed introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza della stessa, con l’ulteriore conseguenza che, in virtù dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (nella specie applicabile “ratione temporis”), il giudice ha il potere-dovere di esaminare l’intero rapporto, con cognizione non limitata alla verifica della legittimità formale del provvedimento, ma estesa - nell’ambito delle deduzioni delle parti - all’esame completo nel merito della fondatezza dell’ingiunzione, ivi compresa la determinazione dell’entità della sanzione, secondo i criteri stabiliti dall’art. 11 della legge citata, sulla base di un apprezzamento discrezionale insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato e immune da errori logici o giuridici” (Cass. civ. Sez. II, 02/04/2015, n. 6778 analogamente Cass. civ. Sez. Unite, 28/01/2010, n. 1786).

Va segnalato, altresì, che l’art. 22 comma 3 quinquies del decreto prevede che, in caso di irrogazione della maxi-sanzione, non trovano applicazione le sanzioni in materia di omessa comunicazione di assunzione, di consegna della lettera di assunzione e di omesse registrazioni sul libro unico del lavoro.

Importante novità consiste nella reintroduzione della procedura di diffida di cui all’art. 13 del D.lgs. n. 124/2004. Tale meccanismo consente la regolarizzazione delle violazioni accertate e l’irrogazione delle sanzioni sopra descritte secondo gli importi previsti nel minimo edittale.

L’adozione della diffida è stata condizionata alla circostanza che il personale occupato in nero risulti ancora in forza all’impresa all’atto dell’adozione della diffida stessa. In tale caso il Legislatore delegato ha stabilito anche le modalità di regolarizzazione predicabili con il provvedimento di diffida.

Segnatamente la regolarizzazione deve avvenire mediante la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato:

  1. a tempo pieno e indeterminato;

  2. a tempo parziale e indeterminato con riduzione dell’orario di lavoro non superiore al cinquanta per cento dell’orario a tempo pieno;

  3. a tempo pieno e determinato di durata non inferiore a tre mesi.

Per come è formulata la disposizione sembrerebbe esclusa la possibilità di regolarizzare il lavoratore occupato in nero mediante contratto part-time a tempo determinato, con durata non inferiore a tre mesi.

Tuttavia, il senso logico e complessivo della norma porta conclusioni diverse.

Infatti, se il contratto part-time e quello determinato sono singolarmente utilizzabili non si vede la ragione per cui il loro impiego promiscuo debba essere precluso per regolarizzare il lavoratore in nero, fermo restando che il periodo minimo di durata del rapporto debba essere non inferiore a tre mesi.

Il testo normativo non ammette la diffida qualora l’occupazione in nero riguardi lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno ed i minori in età non lavorativa. In tale ipotesi, invece, le sanzioni sono aumentate del venti per cento.

Si ritiene che l’opzione della regolarizzazione mediante contratto a tempo determinato sia percorribile, sempre che venga rispettata la previsione di cui all’art. 20 del D.lgs. n. 81/15.

Resta comunque difficile da conciliare il lavoro nero con una regolarizzazione ex post mediante contratto a termine, atteso che per quest’ultimo (salva l’ipotesi in cui il rapporto non abbia durata superiore a 12 giorni), l’art. 19, comma 4 del D.lgs. n. 81 cit., richiede la forma scritta ad substantiam. L’assenza della forma scritta, infatti, determina per regola generale l’instaurazione di un rapporto subordinato a tempo indeterminato. Quest’ultimo, in base al nuovo meccanismo della diffida, verrebbe a essere trasformato (sempre che la parte datoriale ottemperi al provvedimento ispettivo) in rapporto di lavoro a tempo determinato.

Semmai potrebbe verificarsi l’ipotesi curiosa in cui la regolarizzazione con contratto a termine possa determinare il superamento dei limiti percentuali di cui all’art. 23 del D.lgs. n. 81 cit.. In tale caso si ritiene che il sistema premiante della diffida non possa basarsi su una fattispecie illecita e pertanto anche in tale caso si ritiene che la regolarizzazione non potrà avvenire con contratto a termine.

Il datore di lavoro, per beneficiare della diffida, è tenuto a mantenere in forza il lavoratore per almeno tre mesi, verosimilmente decorrenti dalla data di avvenuta regolarizzazione. La verifica del completo adempimento alla diffida avverrà evidentemente al termine del periodo minimo di mantenimento in servizio del lavoratore e quindi al termine di un periodo di 120 giorni.

Ci si chiede allora se la diffida possa considerarsi ottemperata qualora il rapporto di lavoro si risolva per fatto riconducibile alla volontà del lavoratore, manifestata per circostanze avulse dalla giusta causa di recesso. In tale ipotesi, non sembra che la misura premiale possa venire meno, poiché l’obbligo di garantire la durata del rapporto di lavoro viene posto in capo al datore di lavoro, sul quale non possono gravare responsabilità che discendono da atti altrui.

Un aspetto delicato è comprendere se la diffida sia adottabile qualora il datore di lavoro abbia nelle more regolarizzato il lavoratore con un contratto speciale (es. apprendistato, intermittente).

L’art. 22, comma 3 ter del D.lgs. n. 151 cit., nel dettare il contenuto della diffida, adopera l’articolo indeterminativo “un” anteposto alla dizione “contratto a tempo indeterminato”.

Considerato che l’apprendistato o il contratto intermittente (non i voucher) sono atti negoziali speciali che vengono ricompresi nel genere del contratto subordinato, l’idea sarebbe quella per cui anche tali schemi negoziali possano essere utilizzati in sede di regolarizzazione, a patto che vengano rispettate le condizioni complessive previste dalla citata disposizione normativa.

Insomma, salve diverse letture del Dicastero, si tratterebbe di una apertura senza frontiere per la regolarizzazione in corsa del lavoro nero.

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