Per gli illeciti commessi dall’amministratore di fatto risponde il prestanome?

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Gli ispettori della DTL effettuano un accesso all’interno dei locali di Alfa Srl dedita alla lavorazione del ferro. La maggior parte dei lavoratori afferma di individuare come datore di lavoro Tizio, quando invero costui risulta iscritto nei libri aziendali come dipendente. Dalla visura camerale risulta invece che amministratore unico di Alfa Srl è Caio, anch’esso trovato intento alle lavorazioni. Sicché gli ispettori approfondiscono le indagini e riscontrano che colui che effettivamente esercita i poteri di gestione aziendale è Tizio, il quale ha chiesto a Caio di comparire come formale rappresentante legale di Alfa Srl. Quali conseguenze giuridiche possono prospettarsi all’esito degli accertamenti?



Premessa

L’azienda è un’organizzazione di risorse umane e materiali finalizzata alla soddisfazione, alla produzione, alla distribuzione ovvero al consumo di beni economici e servizi. Tale concetto è stato positivizzato dall’art. 2555 c.c., che definisce l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. La gestione di tali beni viene esercitata da coloro che amministrano l’impresa e che, pertanto, all’interno di essa assumono responsabilmente le relative decisioni. Non di rado capita che per eludere tali responsabilità la società conferisca gli incarichi apicali a terzi, i quali invero risultano essere dei meri prestanome, perché il potere di gestione viene di fatto esercitato da coloro che formalmente non compaiono come amministratori ma che a tutti gli effetti ne esercitano le attribuzioni. Si tratta allora di verificare se nonostante tale escamotage l’amministratore di fatto possa essere comunque chiamato a rispondere delle decisioni assunte e se, eventualmente, tale responsabilità si somma con quella dell’amministratore formalmente nominato.

L’amministratore di fatto: definizione normativa

In genere si definisce amministratore di fatto di una società colui che, senza un’investitura formale, si ingerisce nell’attività di gestione esercitando le funzioni che la legge attribuisce agli amministratori di diritto senza alcuna opposizione da parte di questi ultimi. Il potere gestorio si riferisce principalmente al profilo contabile e amministrativo incidente sulle attività, sui programmi e sulle scelte organizzative aziendali che caratterizzano l’oggetto sociale. Mediante tale ingerenza la posizione dell’amministratore di fatto viene responsabilmente equiparata a quella dell’amministratore di diritto, attesa la previsione di cui all’art. 2639 comma I c.c., a mente della quale “per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”. Occorre sgombrare subito il campo da equivoci. Il portato effettuale della norma riguarda l’equiparazione di posizione tra amministratore di fatto e amministratore di diritto, ma non incide sul principio di personalità dell’illecito per cui la responsabilità va comunque ascritta a colui che ha materialmente violato il precetto normativo.

Amministratore di fatto e reato fallimentare: cenni

Ciò chiarito, occorre innanzitutto osservare che l’art. 2639 c.c. si riferisce ai “reati previsti dal presente titolo”. Considerato che il titolo XI del c.c. tratta solo dei reati societari si potrebbe obiettare che la nozione di amministratore di fatto determinata normativamente sia circoscrivibile unicamente ai reati societari e non si riferisca invece anche ai reati fallimentari. Questi ultimi non potrebbero così essere imputati all’amministratore di fatto, pena l’indebita applicazione di analogia in malam partem, non consentita nel diritto penale.

L’assunto è stato tuttavia sconfessato dalla Suprema Corte, secondo la quale la descrizione dell’amministratore di fatto desumibile dall’art. 2639 comma I c.c. avrebbe carattere definitorio, con la conseguenza che la stessa è tratteggiabile e applicabile anche in relazione a reati diversi da quelli societari, tra cui quelli fallimentari. L’equiparazione delle responsabilità dell’amministratore di fatto a quello dell’amministratore di diritto è stata affermata dalla S.C. non solo nella materia penale, ma anche in quella civile e quella tributaria.

Sistematicità e continuatività nell’esercizio delle funzioni gestorie

Quanto al contenuto dell’ingerenza, l’art. 2629 comma I c.c. richiede che la stessa venga esercitata in maniera continuativa e significativa. Anche tali requisiti sono stati oggetto di attenzione da parte della S.C. che con orientamento univoco e costante ha affermato che “[…] significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale”. Sotto il profilo probatorio la Corte osserva che “la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive - in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare […]”.

La posizione di garanzia dell’amministratore di fatto

Al ricorrere delle suesposte condizioni l’equiparazione dell’amministratore di fatto all’amministratore di diritto assume portata generale anche in relazione a tutti quei comportamenti commissivi od omissivi eventualmente imputabili all’amministratore di diritto. In altre parole, per effetto della sistematica e continuativa ingerenza sulla gestione del capitale sociale, l’amministratore di fatto assume chiaramente una posizione di garante rispetto all’intera gamma dei doveri che gravano sull’amministratore “di diritto”. Tale posizione di garanzia comporta per corollario che l’amministratore di fatto diviene obbligato ex art. 40 comma 2 c.p. a impedire che vengano poste in essere condotte vietate incidenti sull’amministrazione della società, così da pretendere anche nei confronti dell’amministratore di diritto l’esecuzione degli adempimenti imposti dalla legge.

La posizione del “testa di legno”

Quest’ultimo assunto fa da prologo all’analisi della posizione dell’amministratore di diritto, formalmente titolare di poteri di gestione, ma sostanzialmente esautorato da ogni incombenza al punto da essere qualificabile come una “testa di legno” o prestanome. Il punto in tale evenienza è verificare se possa o meno affermarsi una responsabilità di quest’ultimo per gli eventuali illeciti commessi dall’amministratore di diritto. Al riguardo si registrano in giurisprudenza prese di posizione non univoche.

  1. Un indirizzo molto rigoroso (senza soffermarsi sulle valutazione inerenti all’elemento soggettivo dell’illecito) sostiene che l’assoluta equiparazione tra amministratore di fatto e amministratore di diritto che abbia formalmente assunto tale qualifica solo come prestanome, comporta l’imputazione in capo a quest’ultimo, a titolo concorsuale, dei reati o degli illeciti eventualmente commessi dall’amministratore di fatto, giacché in capo al primo gravano, quale legale rappresentante, i doveri positivi di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione sociale. In sostanza il solo prestarsi ad un ruolo meramente apparente costituirebbe il presupposto per la sussistenza di un concorso nella condotta posta in essere dall’amministratore di fatto.

  2. Va sottolineato tuttavia che il prevalente indirizzo della S.C. valuta le implicazioni connesse al principio di colpevolezza e concentra l’attenzione sui problemi legati all’accertamento dell’elemento psicologico. Ma proprio su tale versante non vi è unanimità di vedute. Partendo dal presupposto che colui che gestisce la società è l’amministratore di fatto e che pertanto è in condizione di compiere l’azione dovuta, va evidenziato che tale circostanza non eliderebbe in ogni caso la responsabilità del prestanome. Quest’ultimo invero assume una posizione di garanzia ai sensi dell’art. 2392 c.c. per la conservazione del patrimonio sociale, in funzione del quale è titolare di un obbligo di impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi. Tale obbligo comunque è ascrivibile in capo al prestanome sempre che costui abbia l’effettiva possibilità di prendersi cura del bene tutelato dalla norme. Infatti il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d’ingerenza nella gestione della società, appannaggio, quest’ultima, del solo amministratore di fatto. Sicché, affinché il prestanome possa essere chiamato a rispondere a titolo concorsuale degli eventuali illeciti commessi dall’amministratore di fatto, occorre che in capo al primo ricorra il dolo o quantomeno la colpa. Qui si appunta la divergenza.

  3. Parte della giurisprudenza penale ricorre alla figura del dolo eventuale asserendo che l’accettazione della carica, da parte del prestanome, implica anche l’accettazione dei rischi connessi a tale carica, con la conseguenza che il consenso prestato per ricoprire formalmente il ruolo di amministratore determina anche la consapevolezza che da un’eventuale condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato o, se non altro, l’accettazione del rischio che questi si verifichino.

  4. Altro orientamento formatosi per il reato di bancarotta fraudolenta stempera ulteriormente la figura del dolo eventuale, poiché ritiene che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto, atteso che la consapevolezza non può presumersi in base al semplice dato di avere acconsentito a ricoprire formalmente la carica predetta.


  5. Quest’ultimo orientamento appare più convincente, perché postula un esame sulle circostanze concrete e quindi un esame effettivo circa la sussistenza dell’elemento psicologico, mentre il primo indirizzo sembra adombrare una forma di responsabilità da posizione che nasconde ipotesi di responsabilità oggettiva
    .

    Sul versante civile o amministrativo invece la possibilità che venga affermata la responsabilità del prestanome appare di più agevole atteso che gli eventuali illeciti sono configurabili con la mera colpa. Peraltro quest’ultima nel regime delle sanzioni amministrative è contrassegnata dalla suitas ed è quindi sufficiente un contegno di coscienza.

    Ben si intende che, perché possa ascriversi al prestanome la responsabilità colpevole dell’illecito commesso dall’amministratore di fatto, occorre necessariamente che il primo abbia accettato la carica liberamente e non sotto costrizione. In quest’ultima ipotesi infatti la responsabilità va imputata unicamente l’amministratore di fatto. Infatti la giurisprudenza in ambito lavoristico ha puntualizzato che “integra il delitto di cui all’art. 611 cod. pen., e non quello di estorsione, la condotta del datore di lavoro che costringa con violenza o minaccia il proprio dipendente ad assumere, come prestanome, la carica di amministratore in una società dedita all’emissione di fatture per operazioni inesistenti”.

    Il caso concreto

    Venendo al caso concreto, gli ispettori della DTL hanno effettuato un accesso ispettivo all’interno dei locali di Alfa Srl dedita alla lavorazione del ferro. La maggior parte dei lavoratori ha nell’occasione individuato come datore di lavoro Tizio, quando invero costui risulta iscritto nei libri aziendali come dipendente. Dalla visura camerale risulta invece che amministratore unico di Alfa Srl è Caio, anch’esso trovato intento alle lavorazioni. Sicché gli ispettori hanno approfondito le indagini e hanno riscontrato che colui che effettivamente esercita i poteri di gestione aziendale è Tizio, il quale ha chiesto a Caio di comparire come formale rappresentante legale di Alfa Srl. Per effetto dell’equiparazione sancita dall’art. 2932 c.c. la posizione di Tizio verrà riqualificata come componente della compagine amministrativa composta non più da un amministratore unico, ma da due amministratori e cioè da Tizio e da Caio. Appare evidente infatti che nel momento in cui Tizio si mostra direttamente interessato e compiutamente informato nella gestione della società, delle caratteristiche e dei programmi aziendali non può non essere qualificato come amministratore. Tale ingerenza può manifestarsi anche e soprattutto mediante l’assunzione di decisioni sui pagamenti e sulla selezione dei dipendenti, sulla sottoscrizione dei contratti di lavoro, di appalto o di forniture. Se nella gestione di tali attività vengano commessi illeciti da Tizio, nulla quaestio circa la responsabilità di quest’ultimo in quanto autore materiale della violazione. Diversamente si pone la verifica su Caio, la cui responsabilità si appunta principalmente sulla natura dell’elemento soggettivo che ne caratterizza la posizione di garanzia. Sicché, se tale illecito ha natura penale si ritiene che vada accertata l’eventuale rappresentazione consapevole di Caio circa l’agire illecito di Tizio. Se invece l’illecito è punito con la mera colpa, sufficiente quest’ultima per le contravvenzioni e gli illeciti amministrativi, allora occorrerà verificare se l’inerzia di Caio risulti o meno contrassegnata da negligenza nell’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo.


    NOTE

    i Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 20-06-2012) 08-10-2012, n. 39535.

    ii Sez. 3, Sentenza n. 23425 del 28/04/2011 Ud. dep. 10/06/2011 Rv. 250962.

    iii Nella materia penale cfr. Cass. pen. Sez. V Sent., 11/01/2008, n. 7203, Cass. pen. Sez. III, 24/06/1993, n. 9097.

    iv Nella materia civile cfr. Cass. civ. Sez. I, 05/12/2008, n. 28819; Cass. civ. Sez. I, 12/03/2008, n. 6719.

    v Nella meteria tributarie cfr. Cass. civ. Sez. V, 09-11-2005, n. 21757.

    vi Cass. pen. Sez. V, 15/03/2013, n. 51891; Cass. pen. Sez. V, 17/10/2005, n. 43388; Cass. pen. Sez. V, 14/04/2003, n. 22413; conforme anche la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Torino, 04/06/2008.

    vii Cass. pen. Sez. V, 20/06/2013, n. 35346.

    viii Cass. pen. Sez. V, 16/10/2012, n. 45007; Cass. pen. Sez. III, 05/07/2012, n. 33385; Cass. pen. Sez. V, 23/01/2012, n. 11649.

    ix Cass. pen. Sez. III, 25/05/2011, n. 25047; Uff. indagini preliminari Torino, 28/03/2013; Trib. Firenze Sez. II, 21/03/2012; Trib. Monza, 03/02/2012.

    x Trib. Milano Sez. spec. propr. industr. ed intell., 29/11/2012.

    xi Cass. pen. Sez. III, 19/11/2013, n. 47110.

    xii Cass. pen. Sez. IV Sent., 12/03/2008, n. 22281; Cass. pen. Sez. V, 10-12-2003, n. 6114; Cass. pen. Sez. V, 25/03/1997, n. 4892; Cass. pen. Sez. V, 02/06/1999; Trib. Aosta, 04/10/2011; Trib. Roma, 22/12/2004.

    xiii Cass. pen. Sez. V, 19/02/2010, n. 19049; Cass. pen. Sez. V, 04/06/2004, n. 28007; Cass. pen. Sez. V, 05/02/1998, n. 3328.

    xiv Cass. pen. Sez. II, 26-03-2010, n. 15302.

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