Spunti riflessivi in materia di discriminazione

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Spunti riflessivi in materia di discriminazione

Premessa

La Corte di Cassazione con sentenza n. 3968 del 19/02/2018 ha stabilito che la deduzione in giudizio della violazione del principio di uguaglianza e di non discriminazione implica necessariamente una valutazione comparativa, rimandando ad un concetto di relazione. In particolare, i Giudici di legittimità hanno osservato che per discriminazione si intende, non una generica differenza di trattamento, bensì un trattamento diverso e deteriore rispetto a quello riservato ad altri appartenenti alla stessa classe di persone, basato su un fattore di discriminazione.

Trattamento deteriore e giudizio comparativo

Va preliminarmente osservato che a seguito delle recenti riforme cui è stato sottoposto il diritto del lavoro, che hanno inciso in particolare sulla tutela in materia di licenziamenti, è emersa una nuova centralità della tutela antidiscriminatoria, nella quale i divieti di discriminazione, come osservato da autorevole dottrina, “costituiscono la forma attuale in cui si esprimono i meccanismi di correzione degli squilibri del potere contrattuale” (M. BARBERA, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, 2007, XX).

Tali squilibri si possono manifestare mediante discriminazioni dirette o indirette. La discriminazione è diretta allorché, premesso un fatto di protezione, il lavoratore viene sottoposto a un trattamento diverso e deteriore rispetto a quello applicato ad altri colleghi che versano in una situazione comparabile. La discriminazione invece è indiretta quando il datore, sempre rispetto a un fatto di protezione, applica un trattamento uguale a lavoratori comparabili, ma con posizione non assimilabile.

Presupposto della discriminazione è dunque un giudizio comparativo, che può essere effettuato, tanto in concreto quanto in modo virtuale (c.d. situation testing) e quindi assumendo come tertium comparationis una fattispecie ipotetica, rappresentata financo dalla posizione del lavoratore discriminato, analizzata, in tale caso, alla luce di un definito ambito spazio-temporale.

Come dispone l’art. 28 del D.lgs. n. 150/11, per il giudizio comparativo possono essere utilizzati anche “dati di carattere statistico” inerenti esemplificativamente “alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione alle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata”.

I fattori di protezione

I fattori di protezione su cui si appunta il trattamento deteriore vengono definiti, anzitutto, dall’art. 15 della L. n. 300/70, il cui testo, a seguito delle modifiche apportate, dapprima con l’art. 13 della L. n. 903/77 e poi con l’art. 4 del D.lgs. n. 216/03, stabilisce che “è nullo qualsiasi patto od atto diretto a: 

a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;

b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

La previsione normativa conclude stabilendo che le disposizioni sopra citate “si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.

Le convinzioni personali

Vale sottolineare in proposito che la nozione di “convinzioni personali” racchiude una serie di categorie etiche, quali le idee politiche, ideologiche, che esprimono i convincimenti morali e sociali del lavoratore. Le convinzioni personali ricomprendano anche le idee sindacali del lavoratore, giacché ciò è nella natura del principio di uguaglianza sostanziale. Sarebbe infatti paradossale negare la tutela contro le discriminazioni proprio nei confronti delle convinzioni sindacali, rispetto alle quali maggiore è il rischio di subire trattamenti deteriori e disuguali durante il rapporto lavorativo. (cfr. Tribunale di Roma del 21 giugno del 2012; Corte d’Appello Roma 19 ottobre 2012).

Il trattamento discriminatorio applicato in danno al lavoratore per convinzioni personali e per ciascun’altra delle ragione indicata dall’art. 15 della L. n. 300 cit. è sanzionato civilmente con la nullità dell’atto e penalmente dall’art. 38 della L. n. 300 cit.. Quest’ultima previsione commina la pena dell’ammenda da €. 154,00 a €. 1.549,00 ovvero dell’arresto da 15 giorni a 1 anno.

Trattandosi di pena alternativa l’applicazione della stessa, in sede ispettiva, è soggetta a prescrizione obbligatoria ex art. 15 D.lgs. n. 124/04. Trattasi di atto appartenente al procedimento penale e mediante il quale il personale ispettivo, in esercizio delle funzioni di cui all’art. 6 comma 2 del D.lgs. n. 124 cit., ordina al contravventore di adempiere a uno specifico obbligo di fare o non fare.

Le molestie quale fattore protettivo

Sempre in ambito lavoristico ulteriori fattori di protezione vengono declinati dall’art. 2 del D.lgs. n. 216/03, in cui figurano anche “le molestie”. Queste ultime, in particolare, costituiscono comportamenti pregiudizievoli, che, per essere assoggettati ai divieti di discriminazione, non richiedono un giudizio comparativo. A tale fine è sufficiente che la condotta sia in correlazione con “uno dei motivi di cui all’articolo 1 [religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale]” e che abbia “lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”.

Per tale assunto risulta confermato che gli interessi individuali e collettivi di natura lavoristica rientrano nel concetto di “convinzioni personale”, quale fattore protettivo elencato dall’art. 15 della L. n. 300 cit. e dall’art. 2 comma 1 del D.lgs. n. 216 cit.

I fattori protettivi stabiliti dall’art. 4 del D.lgs. n. 216/03

Le aree oggetto di protezione di cui all’art. 4 del D.lgs. n. 216 cit., comprendono, altresì, i fattori protettivi stabiliti del D.lgs. n. 198/06 e segnatamente quelli declinati dal capo II, in cui risultano tutelati, tra l’altro:

  • i beni dell’affiliazione e dell’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, ivi comprese le prestazioni erogate da tali organizzazioni (cfr. art. 27 comma 3);
  • qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni (cfr. art. 28 comma 1).

Le sanzioni in materia di trattamento discriminatorio

La violazione dei divieti di discriminazione riconducibili ai predetti fattori viene sanzionata, in sede amministrativa, dall’art. 41 del D.lgs. n. 198 cit..

In particolare il primo comma di tale disposizione stabilisce che ove venga accertato un trattamento discriminatorio commesso da soggetti ai quali siano stati accordati benefici ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, di servizi o forniture, è compito degli organi ispettivi comunicare l’accertamento svolto ai “Ministri nelle cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del beneficio o dell’appalto”. Ciò al fine di consentire a queste ultime di adottare le opportune determinazioni, ivi compresa, se necessario, la revoca del beneficio e, nei casi più gravi o nel caso di recidiva, financo l’esclusione del responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi appalto. Resta esclusa l’applicazione di tale disposizione qualora le parti abbiano raggiunto un accordo conciliativo.

Il secondo comma dell’art. 41 del D.lgs. n. 198 cit. inoltre assoggetta la discriminante alla pena dell’ammenda da 250 euro a 1500 euro. A seguito della depenalizzazione attuata dal D.lgs. n. 8/16 il reato è stato trasformato in illecito amministrativo, soggetto alla sanzione da €. 5.000 a €. 10.000,00. Tuttavia, in virtù di quanto previsto dall’ art. 5, comma 1 del D.lgs. n. 8 cit., quando i reati trasformati in illeciti amministrativi ai sensi del suddetto decreto prevedono ipotesi aggravate fondate sulla recidiva ed escluse dalla depenalizzazione, per recidiva è da intendersi la reiterazione dell’illecito depenalizzato.

Quanto, infine, al regime applicabile ai licenziamenti irrogati a causa di condotte discriminatorie rileva, non solo l’art. 15 della L. n. 300 cit., ma anche l’art. 3 della L. n. 108/90, il quale dispone che “il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie […] è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta […]”. Al lavoratore vittima di licenziamento discriminatorio viene riconosciuta tutela reintegratoria, giusto, in tal senso, l’art. 18 della L. n. 300 cit., nel testo originario e poi novellato dall’art. 41 comma 1 della L. n. 92/12 e giusta, altresì, la previsione di cui all’art. 2 del D.lgs. n. 23/15.

Natura obiettiva della discriminazione, atto ritorsivo

L’orientamento dominante ritiene che, ai fini della tutela civilistica, il trattamento deteriore e meno favorevole, nel giudizio comparativo, rilevi obiettivamente, come effetto pregiudizievole in sé considerato. Si tratta di un criterio elaborato anche dalla giurisprudenza comunitaria, che, premessa la differenza fattuale nella posizione delle parti interessate, mira a garantire effettività alla tutela antidiscriminatoria (cfr. Corte di Giustizia, 26 febbraio 1986, Marshall c. Southampton, causa C-152-84).

Tale indirizzo è stata recentemente recepito dalla S.C., la quale ha osservato che “[…] la discriminazione opera obiettivamente - ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta - ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”. (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, Sent. 05-04-2016, n. 6575). 

In tale prospettiva emerge la distinzione tra atto discriminatorio e atto ritorsivo, giacché quest’ultimo valorizza, ai fini della tutela antidiscrminatoria, anche i fattori protettivi atipici, cioè non positivizzati dal Legislatore. Alla base della ritorsività deve sussistere, però, un motivo illecito unico e determinante, invece irrilevante nella discriminazione attuata su fattori protettivi tipici.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.

Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale.

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