Circolare INAIL 48/17: alla ricerca della ragionevolezza nell’infortunio in itinere

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Circolare INAIL 48/17: alla ricerca della ragionevolezza nell’infortunio in itinere

Premessa

Le recenti politiche volte a favorire la conciliazione tra vita privata e lavoro, che sono state positivizzate dall’art. 25 del D.lgs. n. 80/15 e tradotte in misure concrete con D.I. del 12 settembre 2017, rendono opportuna una rivisitazione dello studio della disciplina dell’infortunio in itinere.

La tutela assicurativa per l’infortunio in itinere

Va osservato anzitutto che l’assicurazione obbligatoria INAIL copre ogni incidente avvenuto per “causa violenta in occasione di lavoro” dal quale derivi la morte, l’inabilità permanente o l’inabilità assoluta temporanea per più di tre giorni. Ove l’infortunio del lavoratore accada durante il percorso di andata e ritorno dal luogo di residenza a quello di lavoro viene in rilievo la fattispecie dell’infortunio in itinere, attualmente disciplinata dall’art. 12 del D.lgs. n. 38/00, che ha aggiunto un ulteriore comma agli artt. 2 e 210 del d.P.R. 1124/65.

Recita infatti l’art. 12 del D.lgs. n. 38 cit. “Salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l’assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti. L’interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti. L’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Restano, in questo caso, esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni; l’assicurazione, inoltre, non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida”.

Occorre illustrare sinteticamente i criteri che devono ricorrere affinché scatti l’obbligo assicurativo dal parte dell’INAIL.

Il normale percorso lavorativo

In primo luogo, deve sussistere un nesso di causalità tra il percorso seguito dal lavoratore e l’evento lesivo. In altre parole, il percorso deve costituire quello normale tra l’abitazione del lavoratore e il posto di lavoro. Il concetto di percorso lavorativo postula una pubblica strada e pertanto, secondo l’indirizzo della giurisprudenza, restano esclusi dalla copertura assicurativa tutti gli eventi che si verificano in luoghi di esclusiva proprietà del lavoratore assicurato o in quelli di proprietà comune, quali le scale e i cortili condominiali, il portone di casa o i viali di complessi residenziali con le relative componenti strutturali (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 16/07/2007, n. 15777).

Il nesso tra tragitto ed esigenze lavorative

In secondo luogo, il percorso deve essere affrontato per esigenze lavorative e in orari confacenti con quelli di lavoro. Non occorre che il percorso sia sempre quello più breve, essendo piuttosto necessario che quest’ultimo sia giustificato dalla concreta situazione della viabilità e soprattutto sia in connessione funzionale con l’attività di lavoro.

Le eventuali interruzioni e deviazioni del normale percorso non rientrano nella copertura assicurativa, salvo che le stesse siano effettuate in attuazione di una direttiva del datore di lavoro ovvero siano dovute a causa di forza maggiore (guasto meccanico) o per esigenze essenziali e improrogabili (soddisfacimento di esigenze fisiologiche) o nell’adempimento di obblighi penalmente rilevanti (prestare soccorso a vittime di incidente stradale).

Invece, le brevi soste che non espongono l’assicurato a un rischio diverso e aggiuntivo non interrompono il nesso causale tra lavoro e infortunio e, dunque, non escludono l’indennizzabilità dello stesso (cfr. lettera Direzione centrale INAIL del 24 gennaio 2005). Ciò diversamente dall’ipotesi in cui la sosta abbia natura voluttuaria e si concretizzi in parecchi minuti (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 18/07/2007, n. 15973).

Il rischio elettivo

Rimangono esclusi dall’indennizzo gli infortuni direttamente causati dal lavoratore per aver posto in essere comportamenti abnormi come l’aver abusato di sostanze alcoliche e di psicofarmaci, dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni, nonché dalla mancanza della patente di guida da parte del conducente.

L’aspetto più controverso, e che è stato spesso approfondito dalla giurisprudenza, riguarda la necessità o meno nell’utilizzo del veicolo privato da parte del lavoratore.

Il carattere necessitato del mezzo privato

Va premesso che l’art. 5 commi 4 e 5 della L. n. 221/2015 ha disposto che “l’uso del velocipede, come definito ai sensi dell’articolo 50 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, deve, per i positivi riflessi ambientali, intendersi sempre necessitato”.

Alla luce di tale intervento normativo, per gli infortuni occorsi a bordo del velocipede non si pone più la questione di verificare se le esigenze che hanno spinto il lavoratore ad utilizzare tale mezzo siano o meno necessarie, né se l’infortunio eventualmente occorso al lavoratore in sella alla bicicletta sia avvenuto o meno su una pista ciclabile, giacché l’impiego di tale mezzo è sempre considerato necessitato e, quindi, equiparato a quello del mezzo pubblico o al percorso a piedi.

Discorso completamente differente riguarda gli altri mezzi privati (autovettura o motocicli o simili).

Invero ai fini della copertura assicurativa, l’art 12 del D.lgs. n. 38 cit. richiede che l’uso del mezzo privato sia necessario, ciò sul presupposto, sotteso alla previsione normativa, per cui il trasporto pubblico rappresenterebbe lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporterebbe il grado minimo di esposizione al rischio della strada (in tale senso cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 17/01/2007, n. 995).

Non v’è subbio alcuno che il trasporto pubblico attenui l’esposizione del lavoratore al rischio di infortuni o eventi lesivi. Piuttosto lascia assai perplessi l’assunto per cui, in una società basata sul libero mercato, e con servizi pubblici non sempre attestati su livelli essenziali, connotata dal largo uso di mezzi di locomozione privati, perché funzionali alla velocità degli scambi e dei traffici, il trasporto pubblico costituirebbe lo strumento ordinario di spostamento dei cittadini.

Ad ogni modo, la verifica della necessità del mezzo privato va accertata caso per caso secondo un criterio di ragionevolezza.

La circolare INAIL n. 14 del 2016

Tale ragionevolezza secondo la prassi INAIL (cfr. circolare n. 14 del 2016) sussiste qualora:

  1. la lunghezza del percorso da effettuare a piedi, intercorrente tra luogo di dimora abituale e luogo di lavoro, oppure tra tali luoghi e la più vicina fermata del servizio pubblico sia superiore a un chilometro, per ogni tragitto considerato separatamente;
  2. gli orari dei servizi pubblici rispetto all’orario di lavoro comportano attese superiori complessivamente ad un’ora.

Una disciplina non più attuale

Ebbene, quando si mette nero su bianco che il mezzo privato non riveste il carattere della necessità qualora il lavoratore sia nella condizione di attendere fino a un’ora per prendere un mezzo pubblico ovvero sia in grado di percorrere un km a piedi per recarsi alla fermata del servizio di trasporto più vicino, si rischia di rendere non aderenti con le nuove politiche atte a conciliare il benessere privato con le esigenze organizzative e produttive.

La verità è che in una società consumistica e pervasa da ritmi frenetici e pressanti, in cui il costante rinnovarsi delle molteplici esigenze di vita toglie spesse il fiato e aumenta il senso di angoscia per non riuscire a fare tutto quello che si dovrebbe fare nell’arco delle ventiquattro, non è francamente pensabile che il lavoratore dedichi due ore del proprio tempo esclusivamente per prendere o per attendere un mezzo pubblico ai fini lavorativi.

Non è tanto la considerazione che anche il mezzo di trasporto privato implichi minori tempi di percorrenza, quanto soprattutto la circostanza per cui l’evolversi incessante del mercato del lavoro, lo sviluppo della “gig economy” e l’introduzione di nuovi istituti che rivisitano profondamente le categorie del lavoro autonomo e subordinato, anche in un’ottica di bilanciamento tra esigenze private e produttive, rendono non più procrastinabile un ripensamento degli spazi entro cui garantire la tutela assicurativa, anche al di fuori dei luoghi di lavoro.

Una politica che intenda effettivamente, e non solo sulla carta, conciliare gli interessi e le esigenze del lavoro con quelle familiari postula, per ciò che riguarda  la materia di che trattasi, una presa d’atto del radicale cambiamento del modo di lavorare, sempre più contrassegnato da prestazioni da remoto o conformate dall’utilizzato di piattaforme digitali o flessibili e segmentate sul piano orario. Un cambiamento, pertanto, che richiede necessariamente una nuova valutazione dei criteri eziologici su cui parametrare l’applicazione della tutele infortunistiche e un cambiamento radicale del significato da attribuire al concetto di necessità dell’utilizzo del mezzo privato.

In un contesto simile, pertanto, appare ormai non più attuale quell’indirizzo pretorio che ritiene non meritevole di tutela un impiego del mezzo privato funzionale ad attendere condotte di vita quotidiana improntate a maggiore comodità o a minori disagi (Cass. civ. Sez. lavoro, 27/07/2006, n. 17167).

Anzi viene da sostenere l’esatto contrario, nel senso che, in una società multiforme e che poggia su una sana e sostenibile competitività produttiva, la selettività della tutela assicurativa dovrebbe garantire il lavoratore anche per l’impiego ordinario della vettura privata, giacché, quest’ultima, in certi contesti ambientali e per certe forme lavorative, costituisce senza dubbio lo strumento più favorevole per soddisfare, in pari misura, interessi produttivi ed esigenze familiari.

Se non si sceglie la strada della modifica legislativa, si ritiene che spetti all’interprete il compito di attribuire all’aggettivo “necessitato” di cui all’art. 12 del D.lgs. n. 38 cit. un significato diverso e più corrispondente alle esigenze sopra descritte.

La circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017

Non sembra, però, che offra spunti di cambiamento la circolare n. 48 del 2 novembre 2017 emanata dall’INAIL, onde fornire istruzioni operative proprio per la gestione assicurativa dei lavoratori che svolgano la propria prestazione in regime di smart working.

L’INAIL ritiene che al lavoratore agile, laddove svolga la propria prestazione fuori dall’azienda, debbano applicarsi il regime tariffario e i medesimi criteri che determinano l’operatività della tutela assicurativa per le attività eseguite in azienda.

Sicché, il lavoratore agile che presta la propria attività lavorativa all’esterno dei locali aziendali e nel luogo da lui prescelto riceverà tutela solo qualora l’infortunio sia stato causato da un rischio connesso con la prestazione lavorativa. Atteso però il carattere fluido e mutevole dell’attività resa da costui non si può nascondere che l’accertamento del nesso rischia di avvilupparsi in un nodo gordiano.

Non minori e anzi maggiori sono le incertezze per ciò che concerne l’operatività della tutela prevista per l’infortunio in itinere, rispetto al quale l’istituto si limita a richiamare il dettato normativo contenuto nell’art. 23 della L. n. 81/17.

Tale norma, in particolare, riconosce e garantisce tutela agli infortuni occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali in presenza di due condizioni alternative, e cioè quando il tragitto svolto sia connesso:

  1. a esigenze legate alla prestazione lavorativa;
  2. alla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative, sempre che, in quest’ultimo caso, l’esigenza risponda a criteri di ragionevolezza.

Nessun accenno viene fornito in merito alla definizione del parametro inerente alla necessità dell’utilizzo del mezzo privato, che, verosimilmente e come sopra descritto, costituisce il mezzo di locomozione ordinario per tale categoria di lavoratori. Tale silenzio, specie in relazione alla seconda condizione, non contribuisce a favorire l’applicazione del nuovo istituto. Tutto, al riguardo, sembra essere rimesso alla ragionevolezza e dell’Ente assicurativo.

Alle soglie del ventennio del nuovo millennio e del nuovo progetto di industria 4.0, lavoro agile, orari flessibili, rapporti di collaborazione, sgravi contributivi per welfare aziendale rischiano di essere istituti o misure incomplete o non satisfattive se sul piano delle tutele non si aderisce all’idea che la tutela, lungi dall’essere standardizzata secondo stereotipi lavorativi astratti e non più attuali, andrebbe plasmata secondo i modelli che conformano l’organizzazione aziendale. In tale senso, e per concludere su tema cui è stato focalizzato il presente contributo, quando si parla di necessità del mezzo privato, tale locuzione andrebbe intesa non più in chiave restrittiva e residuale, ma piuttosto in un’ottica funzionale a ciascun individuo per migliorare il lavoro e la qualità della vita propria e della rispettiva famiglia.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo dell’opinione degli autori e non impegnano l’amministrazione di appartenenza

Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale

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