Il convivente di fatto: un collaboratore senza previdenza

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Il convivente di fatto: un collaboratore senza previdenza

La convivenza di fatto nel contesto socio-giuridico

La L. n. 76/16, rubricata “Regolamentazione delle unioni civili tra persone delle stesso sesso e disciplina delle convivenze”, entrata in vigore il 05/06/2016 (c.d. Legge Cirinnà), ha disciplinato l’istituto delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e quello della convivenza di fatto. Nel presente contributo viene concentrata l’attenzione sui risvolti previdenziali e assicurativi di tale disciplina qualora il convivente collabori nell’impresa familiare.
Va premesso che da molti anni, alcune formazioni sociali hanno sottoposto la disciplina sull’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. a una severa critica, ritenendola non più adeguata al contesto socio-economico, contrassegnato infatti da un aumento sempre più crescente di persone conviventi che collaborano all’impresa senza, tuttavia, essere unite matrimonialmente.
Secondo i sostenitori di un tale orientamento, alla famiglia fondata sul matrimonio si è andata nel corso degli anni affiancando la “famiglia naturale o di fatto”, costituita da persone di sesso diverso che convivono more uxorio, cioè secondo il costume matrimoniale, ergo comportandosi come marito e moglie, senza tuttavia essere uniti dal vincolo matrimoniale. Non solo. Tale orientamento si è sviluppato con connotati ancor più radicali, al punto da ritenere che il concetto di famiglia non potesse essere limitato alle persone di sesso diverso, ma, sullo sfondo di una lettura estensiva degli artt. 2 e 3 della Cost., dovesse ricomprendere anche persone del medesimo sesso.
Va osservato che, sulla spinta di simili indirizzi, il Legislatore già era intervenuto, nel corso del tempo, in maniera frammentaria e inorganica per riconoscere al convivente specifiche situazioni soggettive al convivente (es. art. 5 della L. 40/2004 che permette ai conviventi di ricorrere alla fecondazione artificiale ovvero l’art. 417 c.c. che consente alla persona convivente stabilmente di richiedere l’interdizione o la nomina di un amministratore di sostegno per il proprio compagno).
Anche la giurisprudenza, sia costituzionale sia di legittimità, negli anni è stata sempre più propensa a ritenere che, sullo sfondo dell’art. 2 della Cost., il concetto di famiglia ricomprenda anche il convivente more uxorio.
Significative sono le sentenze con cui la Corte Costituzionale ha affermato che “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare - anche a sommaria indagine - costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche” (Corte Cost. sentenza n. 237/1986) e la pronuncia con cui, sempre il Giudice delle Leggi, ha stabilito che “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (Corte Cost. sent. n. 138/2010).
In sede pretoria è sufficiente rammentare l’orientamento che ha riconosciuto il diritto del convivente al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per la morte del compagno o della compagna provocata da un terzo (Cass. civ. Sez. III, 29/04/2005, n. 8976), ovvero il diritto del convivente al subentro nel contratto di affitto (Cass. civ. Sez. III, 01/08/2000, n. 10034; App. Roma Sez. IV, 18/10/2006).
Sennonché tali aperture, se si escludono sporadiche e isolate decisioni (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 15/03/2006, n. 5632), non hanno mai interessato l’art. 230 bis c.c., giacché il portato di tale fattispecie è stato sempre circoscritto alla sola “[…] famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti”, senz’altro di sesso diverso (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 02/05/1994, n. 4204; cfr. Trib. Padova Sez. I, 04/04/2003).
Il quadro ora muta profondamente perché la L. n. 76 cit. cerca di disciplinare in maniera organica anche i diritti del convivente di fatto, al quale viene riconosciuta, tra l’altro, la facoltà di partecipare all’impresa familiare del partner.

Il convivente di fatto secondo la L. n. 76 cit.

La L. n. 76 cit. si compone di un solo articolo e di ben 69 commi. Il comma 36 definisce la convivenza di fatto: “Due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Da tale previsione si deduce facilmente che i conviventi possono essere due persone dello stesso sesso o di sesso diverso e che, però, non devono aver contratto matrimonio o un’unione civile, né tanto meno essere parenti.
La definizione di convivente posta dal comma 36 è valida ai fini dell’applicazione delle disposizioni contenute dal comma 37 al comma 67.
Ai sensi del comma 37 l’accertamento della stabile convivenza implica un’effettiva coabitazione, che deve anche risultare da dichiarazione anagrafica (cfr. art. 4 let. b) del comma 1 dell’articolo 13 del D.P.R. n. 223/89).

Il convivente nell’impresa familiare

Il comma 46 è dedicato ai diritti del convivente che presta la propria attività nell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c., rispetto al quale viene aggiunto un nuovo articolo, il 230 ter c.c..
Il nuovo testo dispone testualmente: “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
Prescindendo altresì dall’esame sulla consonanza e sulle differenza che intercorrono, sotto il profilo civilistico tra l’art. 230 bis c.c. e l’art. 230 ter c.c, preme piuttosto evidenziare i risvolti che la novella presenta in ordine alla disciplina previdenziale e assicurativa del convivente che non instuari con l'impresa del partner un rapporto subordinato o societario, per poi concentrare l'attenzione sulle ricadute operative in chiave ispettiva.

La tutela previdenziale all’INPS per il familiare collaboratore

Vale anzitutto osservare che l’art. 2 della L. n. 463/1959 e l’art. 2 della L. n. 613/1966 prevedono l’obbligo d’iscrizione all’assicurazione I.V.S. anche dei collaboratori e coadiuvanti familiari delle imprese, rispettivamente, artigiane e commerciali. Presupposto dell’iscrizione è che l’attività venga resa dal familiare in maniera abituale e prevalente e che, pertanto, la relativa prestazione occupi una parte significativa e preponderante della vita lavorativa. L’art. 1 comma 206 della L. n. 662/96 ha previsto l’obbligo di iscrizione anche in favore del familiare affine di terzo grado.

L’assenza di tutela previdenziale per il convivente di fatto

Tra i soggetti assicurabili non figurano ovviamente i conviventi di fatto, atteso che all’epoca neppure si poneva la tematica positivizzata dalla L. n. 76 cit.. Quest’ultima ha omesso di integrare le previsioni di cui alla L. n. 463 e alla L. n. 613.. Sicché, allo stato attuale, i conviventi di fatto non pare che possano fruire della copertura previdenziale stabilita dalla L. n. 463 cit. e dalla L. n. 613 cit..
Si aggiunga che la clausola di equiparazione prevista in favore delle persone legate da unione civile dall’art. 1 comma 20 della L. n. 76 cit., con cui è stato stabilito che “…le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” dispiega effetti solo per le unioni civili e pertanto non è applicabile anche ai conviventi di fatto.

La tutela assicurativa all’INAIL per il familiare collaboratore

Per ciò che riguarda invece la tutela assicurativa all’INAIL, vale ricordare che ab origine l’art. 4 comma 1 n. 6 del T.U. n. 1124/65 non comprendeva i familiari di cui all’art. 230 bis c.c. tra i soggetti iscrivibili all’ente assicuratore. Tale iscrizione è stata possibile solo all’esito della sentenza n. 476 del 10 dicembre 1987, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della predetta previsione di legge nella parte in cui non garantiva costoro dal rischio correlato all’attività manuale prestata nell’impresa familiare.
Il dictum della Corte è stata recepito dall’INAIL con circolare n. 67 del 01/12/1988, la quale ha stabilito che i collaboratori di cui all’art. 230 bis c.c., che prestino in via non occasionale ergo in maniera continuativa (Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 23/09/2002, n. 13849) e cioè con costanza e regolarità, la loro attività lavorativa manuale o di sovraintendenza nell’ambito dell’impresa familiare, devono essere assicurati all’INAIL (cfr. Ministero del Lavoro Circolare n. 10478/2013 e di seguito e circolare n. 14184/2013).
A sua volta il D.L. n. 112 del 25 giugno 2008, conv., con mod., nella L. n. 133/2008, ha sostituito il primo periodo dell’articolo 23 del T.U. n. 1124 cit., sancendo l’obbligo per il datore di lavoro, che occupa i soggetti di cui all’articolo 4 primo comma, numeri 6 e 7, di comunicare, preventivamente e in via telematica, le posizioni predette all’Istituto assicuratore, indicando altresì il trattamento retributivo ove previsto.

Il convivente è iscrivibile all’INAIL?

Considerato che la L. n. 76 ha omesso di intervenire anche sull’art. 4 del T.U. n. 1124 cit. o si ammette, in maniera pragmatica, che il portato della sentenza n. 476 della Corte possa essere esteso anche al convivente di fatto, onde ricomprendere quest’ultimo tra i soggetti assicurabili, oppure, in assenza di integrazione normativa, il convivente medesimo non appare legittimato a fruire della copertura INAIL.

Le conseguenze sul piano ispettivo

Le argomentazioni sopra espresse forniscono le coordinate per tracciare una soluzione anche da un punto di vista ispettivo, qualora i conviventi vengano colti al lavoro dagli ispettori e invochino l’applicazione dell’art. 1 comma 46 della L. n. 76 cit..
Se non si vogliano seguire soluzione radicali che riconducano la prestazione nell’alveo dell’art. 2094 c.c., il personale ispettivo, allo stato attuale, si trova impossibilitato a impartire provvedimenti volti a garantire l’iscrizione previdenziale e assicurativa dei predetti soggetti. Ciò, a meno che non si opti per una lettura estensiva della pronuncia n. 476 cit. della Corte Costituzionale, perché solo in tale caso appare ammissibile adottare atto di diffida ex art. 13 D.lgs. n. 124/04 volta a comunicare all’INAIL, ai sensi dell’art. 23 del T.U. n. 1124 cit., la posizione del convivente di fatto che collabori nell’impresa familiare del partner.
Se anche tale soluzione venga respinta dall’ente assicuratore, non pare che vi siano remore nell’affermare che la tanto acclamata riforma pecchi di eccesso di liberalizzazione, perché sembra aver dato la stura a un’ipotesi di lavoro nero legislativamente ammesso.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale
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