Il patto di non concorrenza

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Nel caso in cui il datore di lavoro voglia tutelare i propri interessi anche successivamente alla conclusione del rapporto di lavoro, può fare ricorso al c.d. patto di non concorrenza, disciplinato dall’art. 2125 c.c. che è, in pratica, un patto con cui viene esteso il divieto per il lavoratore di svolgere lavoro in concorrenza con il datore di lavoro alla cessazione del contratto.

n.b.: il patto di non concorrenza estende il divieto per il lavoratore di svolgere lavoro in concorrenza con il datore di lavoro alla cessazione del contratto.

La durata

Il Codice Civile stabilisce che la durata del vincolo non può essere superiore:

- a cinque anni, se si tratta di dirigenti;

- a tre anni negli altri casi.

Qualora venga pattuita una durata maggiore, la stessa si riduce nella misura suindicata.

ATTENZIONE

Se viene pattuita una durata maggiore, i limiti di durata del vincolo sono sostituiti di diritto con quelli legali.

Le condizioni

Pena la nullità, il patto di non concorrenza deve:

- risultare da atto scritto (trattasi di forma scritta ad substantiam);

- prevedere un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;

- essere contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

Il momento della stipula

Per la stipula di un patto di non concorrenza è necessaria la volontà di entrambe le parti e la stipula in concreto può avvenire in qualsiasi momento ovvero:

- alla firma del contratto di lavoro;

- durante lo svolgimento del rapporto di lavoro;

- alla cessazione del rapporto di lavoro;

- successivamente al termine del rapporto di lavoro.

L’opzione

La giurisprudenza ritiene che il patto in questione possa essere oggetto di opzione ma è necessario che sia previsto un termine entro il quale l’opzione possa essere esercitata e, soprattutto, l’opzione non può essere esercitata successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro o anche dopo che il lavoratore abbia rassegnato le dimissioni, nonostante sia in corso il periodo di preavviso (Trib. Milano, sentenza dell’1.8.2009).

L’oggetto

Oggetto del patto di non concorrenza è sicuramente l’attività il cui esercizio si vuole inibire ad opera del prestatore di lavoro, ma l’interesse datoriale a tutelare il patrimonio dell’azienda attraverso l’uso che il lavoratore potrebbe fare del know-how, deve contemperarsi con l’impossibilità di vietare all’ex dipendente di lavorare.

Per quanto sopra è necessario che l’oggetto tenga conto del concreto pregiudizio che l’azienda potrebbe subire dall’utilizzo da parte del lavoratore dell’esperienza e delle conoscenze acquisite nel tempo, in termini di penetrazione nel mercato e capacità concorrenziale.

Conseguentemente l’art. 2125 del c.c. può trovare applicazione per i lavoratori aventi mansioni direttive, così come per gli impiegati e perfino per i lavoratori che svolgono mansioni meramente esecutive.

Tuttavia:

- il patto di non concorrenza può riguardare qualsiasi attività e non obbligatoriamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore;

- il patto non può, però, essere di ampiezza tale da comprimere l’esplicazione dell’attività professionale del lavoratore e compromettere ogni potenzialità reddituale;

- i limiti imposti al lavoratore devono comunque consentirgli di potersi procurare un guadagno idoneo ad appagare le sue esigenze e quelle della sua famiglia.

ATTENZIONE

La congruità dell’oggetto va valutata in connessione con la durata del patto, l’estensione geografica ed il corrispettivo pattuito.

L’estensione geografica

La giurisprudenza nel tempo ha permesso di avere indicazioni più chiare su quella che può essere l’estensione geografica del divieto di svolgere lavoro in concorrenza.

Sono, quindi:

- vietate le indicazioni geografiche troppo generiche e quelle troppo estese (Trib. Milano, sentenza del 18.11.1992 e Trib. Ravenna sentenza del 24.3.2005);

- ammessi i divieti di prestare attività per aziende concorrenti aventi stabilimenti o filiali in una determinata zona (Trib. Vicenza, sentenza del 28.4.2009);

- a rischio di legittimità i patti che prevedono il divieto per il lavoratore di svolgere attività non solo per le aziende direttamente concorrenti, ma anche per aziende clienti e utilizzatrici di beni commercializzati dal datore di lavoro (Trib. Milano, sentenza del 12.7.2007).

Il corrispettivo

Il corrispettivo deve essere congruo, tale da compensare il sacrificio chiesto al lavoratore e il mancato guadagno derivante dal divieto imposto, e può essere erogato:

- durante lo svolgimento del rapporto di lavoro;

- alla cessazione del contratto;

- successivamente alla cessazione;

- in misura fissa o in percentuale della retribuzione;

- in natura;

- sotto forma di utilità economica.

Si ritiene che la nullità prevista dall’art. 2125 c.c. vada riferita alla pattuizione:

- di compensi simbolici;

- di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore nonché alla riduzione delle sue possibilità di guadagno.

n.b.: il corrispettivo pattuito per il patto di non concorrenza non può essere simbolico, iniquo o sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore.

Il compenso va, inoltre, visto in connessione diretta con gli altri elementi del patto e deve essere tanto maggiore quanto più sia:

- elevata la posizione gerarchica del lavoratore e la retribuzione normalmente percepita;

- ampio il vincolo territoriale;

- ampio il novero delle attività e/o dei datori individuati come concorrenti;

- estesa la durata temporale.

n.b.: pertanto, il corrispettivo spettante al lavoratore deve essere tanto maggiore quanto maggiore sia la sua professionalità, il vincolo territoriale imposto, le attività vietate, i concorrenti individuati e la durata temporale stabilita.

Ad ogni modo la giurisprudenza ritiene che nessun compenso, per quanto cospicuo, possa rendere valida la rinuncia ad ogni possibilità d'impiego e, anche se nel caso di specie non trova applicazione il principio ex art. 36 Cost., in concreto il compenso deve essere proporzionato rispetto al sacrificio imposto al lavoratore di non utilizzare la propria capacità professionale in attività nel settore in cui opera il datore di lavoro (ex multis: Trib. Milano, sentenze del 19.3.2008 e del 28.9.2010).

In generale, il corrispettivo può:

- essere versato al lavoratore con cadenza mensile dalla sottoscrizione del contratto;

- essere versato in un’unica soluzione alla cessazione del rapporto di lavoro;

- essere versato a rate dalla cessazione del rapporto;

- essere pagato in forma mista.

La violazione del patto

Per la violazione del patto di non concorrenza da parte del lavoratore, è possibile prevedere una specifica penale che il datore può pretendere senza dover provare di aver subito alcun danno.

Ad ogni modo, il datore di lavoro può anche:

- richiedere la restituzione di quanto già erogato e non pagare gli eventuali importi successivi;

- chiedere il pagamento di ulteriori danni subiti che però vanno provati.

n.b.: in caso di violazione del patto di non concorrenza da parte del lavoratore è possibile richiedere le somme versate, non versare quelle ulteriori stabilite, far pagare al prestatore di lavoro una penale (se stabilita) e chiedere il risarcimento dei danni eventualmente subiti.

Il recesso del datore

Il datore di lavoro non può recedere unilateralmente dal patto di non concorrenza se il lavoratore sia stato occupato, dopo la cessazione del rapporto, in azienda non concorrente e, infatti, è nulla la clausola che attribuisce al datore di lavoro la possibilità di recedere dal patto dopo la cessazione del rapporto di lavoro.


 Quadro delle norme 

Art. 36 Cost.

Art. 2125 c.c.

Tribunale di Milano, sentenza del 18.11.1992

Tribunale di Ravenna sentenza del 24.3.2005

Tribunale di Milano, sentenza del 12.7.2007

Tribunale di Milano, sentenza del 19.3.2008

Tribunale di Vicenza, sentenza del 28.4.2009

Tribunale di Milano, sentenza dell’1.8.2009

Tribunale di Milano, sentenza del 28.9.2010


 
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