Lavoro nero e circolare n. 26 del 2015: prime osservazioni

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Lavoro nero e circolare n. 26 del 2015: prime osservazioni

Con circolare n. 26 del 2015, il Ministero del Lavoro ha diramato le prime istruzioni operative in merito al nuovo regime sanzionatorio previsto dal D.lgs. n. 151/15, per l’occupazione di lavoratori in nero. La circolare offre molteplici spunti riflessivi.

Il termine trimestrale per la fruizione della diffida

Con riferimento alla modalità di regolarizzazione del lavoratore occupato senza preventiva comunicazione UNILAV, viene specificato che la possibilità di avvalersi della diffida ex art. 13 del D.lgs. n. 124/04 risulta condizionata dal mantenimento in forza del lavoratore per almeno “90 giorni di calendario”.

Tale indicazione non appare condivisibile. La durata temporale va parametrata non sulle giornate di calendario ma sui mesi di occupazione, che devono essere pari a tre. Considerato che non tutti i mesi dell’anno sono di trenta giorni, la specificazione contenuta nella circolare sembra abbia un contenuto additivo.

La decorrenza del trimestre

In ordine al dies a quo da cui computare la durata del trimestre, la circolare ritiene che tale termine debba decorrere dalla data dell’accesso e che, quindi, il periodo di tre mesi di mantenimento in servizio del lavoratore andrebbe computato al netto del periodo lavorato in nero.

Tuttavia, l’omessa comunicazione del modello UNILAV non priva, sul piano civilistico, il rapporto di lavoro della sua unitarietà. Invero, il periodo di lavoro eseguito in nero costituisce comunque prestazione del medesimo rapporto di lavoro, la cui instaurazione viene ancorata all’atto della conclusione dell’accordo tra le parti. Se si assume come postulato la continuità del rapporto di lavoro, proprio la data di conclusione dell’accordo, a ben vedere, dovrebbe costituire parametro di riferimento per l’individuazione del dies a quo da cui far decorrere il periodo di tre mesi utile ai fini del mantenimento in servizio del lavoratore.

La risoluzione del rapporto di lavoro prima del decorso del trimestre

Sempre rispetto al provvedimento di diffida ex art. 13 D.lgs. n. 124 cit., il Ministero del Lavoro ritiene che tale atto costituisca elemento oggettivo di applicabilità della sanzione in misura minima e che pertanto, in assenza dell’effettivo mantenimento in servizio del lavoratore per almeno tre mesi, qualunque ne sia la ragione, il datore di lavoro non potrebbe fruire del beneficio premiale.

Ciò significa, in altre parole, addossare alla parte datoriale anche la responsabilità di atti risolutivi del rapporto posti in essere dal lavoratore (es. recesso per dimissioni). Anche tale esegesi desta qualche perplessità, perché per un verso sembra scostarsi dalle regole di imputazione della responsabilità degli atti negoziali e per altro verso corre rischio di incentivare operazioni volte a simulare il mantenimento in vita del rapporto di lavoro per il periodo di tre mesi.

La natura sostanziale della diffida

In merito al regime intertemporale di applicazione della sanzione per lavoro nero, la circolare n. 26 cit. stabilisce che la diffida non ha valenza procedurale, ma sostanziale, con la conseguenza che la stessa non può essere adottata per illeciti commessi anteriormente all’entrata in vigore del D.lgs. n. 151 cit. (24 settembre 2015).

Si tratta di un rovesciamento dell’indirizzo espresso dallo stesso Ministero del Lavoro con circolare n. 38 del 2010, nella quale si riconosceva alla diffida valenza procedurale e si ammetteva conseguentemente la possibilità di adottare tale provvedimento anche rispetto a illeciti commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 4 della L. n. 183/10.

Affermare che la diffida ex art. 13 D.lgs. n. 124 cit. è un atto di natura sostanziale, significa riconoscere al provvedimento la capacità di incidere, con valenza lesiva, rispetto a posizioni giuridiche protette. Ebbene, se è vero che la diffida ha valenza sostanziale e che, pertanto, la stessa è idonea ad arrecare pregiudizio a situazioni soggettivamente tutelate, allora si dovrebbe convenire che tale atto costituisca provvedimento impugnabile in sede giurisdizionale. Sennonché la scelta del Ministero, quantunque condivisibile, sembra porsi in disarmonia con l’orientamento dominante della giurisprudenza che finora ha sempre negato alla diffida l’idoneità a produrre effetti diretti nella sfera giuridica del destinatario (cfr. ex multis, Cass., sez. lav., 12.7.2010, n. 16319; Trib. Trieste Sez. lavoro, 19/07/2011).

La regolarizzazione del rapporto di lavoro

Per quanto attiene invece alla scelta delle tipologie contrattuali mediante le quali procedere alla regolarizzazione del lavoratore occupato in nero, il Ministero del Lavoro ritiene che non sia possibile utilizzare il contratto intermittente a tempo determinato o indeterminato perché la ratio legis richiederebbe una continuità del rapporto di lavoro (tra quello instaurato in nero e quello oggetto di regolarizzazione); continuità invece non riscontrabile con il contratto intermittente.

L’assunto è solo parzialmente condivisibile, poiché se è vero che tra il rapporto di lavoro in nero e quello regolarizzato debba ravvisarsi, sul piano della tipologia negoziale, una continuità, allora nulla esclude che quest’ultima possa riscontrarsi anche nel contratto di lavoro intermittente, atteso che per la fattispecie de qua non è richiesta la forma scritta ad substantiam.

In altre parole, nel momento in cui l’art. 22 del D.lgs. n. 151 cit. ha ammesso la facoltà di regolarizzare il rapporto di lavoro in nero mediante contratto a termine (si richiamano le osservazioni formulate nel contributo: Lavoro nero regolarizzato con contratto a termine: un beneficio o un’elusione? edito in questa rivista telematica) a maggior ragione si ritiene che tale facoltà possa essere esercitata utilizzando proprio le tipologie negoziali per la cui conclusione la legge non richiede l’osservanza di forme particolari.

Il contratto intermittente, diversamente dal contratto a termine di cui all’art. 19 del D.lgs. n. 81/15, non richiede la forma scritta ad substantiam, pertanto nulla esclude che le parti, all’atto di instaurazione del rapporto, abbiano convenuto di ricorrere allo schema negoziale di cui all’art. 13 del D.lgs. n. 81 cit.. La circostanza, poi, che il datore di lavoro abbia omesso di inoltrare la comunicazione UNILAV non incide sulla natura del rapporto di lavoro, atteso che tale comunicazione non ha valenza costitutiva sul rapporto, ma solo informativa nei confronti della Pubblica Amministrazione.

L’inoltro della comunicazione UNILAV attiene agli effetti amministrativi del rapporto di lavoro e determina l’applicazione del regime normativo inerente alle relazioni che involgono le parti negoziali con la Pubblica Amministrazione. Ma sul piano civilistico, l’applicazione di tale normativa non genera in linea fattuale una discontinuità nella prestazione di lavoro, né sotto altro aspetto comporta uno sdoppiamento del rapporto di lavoro che resta immutato, sia pur qualificato nello schema normativo corrispondente alla volontà manifestata dalle parti all’atto della conclusione dell’accordo.

Ma v’è un elemento ulteriore e forse dirimente che porta a ritenere non condivisibile la scelta adottata dal Ministero. L’art. 22 del D.lgs. 151 cit. ammette la regolarizzazione del lavoratore in nero mediante “un” contratto a tempo indeterminato. A fronte della dimensione ormai pluralistica del diritto del lavoro, che invero risulta caratterizzato da molteplici schemi negoziali anche di durata indeterminata, la scelta del Legislatore di utilizzare l’articolo indeterminativo “un” anteposto al sintagma “contratto a tempo indeterminato” appare non casuale, bensì causale. Sembra, in altre parole, che il Legislatore alluda alla facoltà di utilizzare non solo “il” contratto a tempo indeterminato ordinario, ma tutti gli schemi negoziali previsti dall’ordinamento a condizione che il contratto utilizzato abbia durata indeterminata e sempre che quest’ultimo corrisponda alla volontà contrattuale manifestata all’atto dell’accordo.

In ogni caso, la scelta adottata dal Ministero del Lavoro di escludere il contratto intermittente dalla tipologie negoziali utilizzabili per la regolarizzazione del lavoratore occupato in nero sembra ammettere, per converso, la possibilità di utilizzare allo scopo tutte le altre forme contrattuali all’uopo previste, a cominciare dal contratto di apprendistato. E allora sorge un domanda: se quest’ultimo contratto è utilizzabile per la regolarizzazione del lavoro, perché per il medesimo fine non può essere impiegato anche il contratto intermittente considerato che entrambe le tipologie negoziali richiedono, ai fini della conclusione del contratto, l’osservanza delle medesime regole formali?

Per rispondere compiutamente alla domanda dobbiamo attendere ulteriori autorevoli pronunciamenti in merito.

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