Accesso agli atti e riservatezza del dichiarante

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All’esito di un controllo ispettivo il personale della DTL adotta verbale sanzionatorio nei confronti di Alfa. Quest’ultima, appena ricevuto il verbale, formula istanza di accesso agli atti ispettivi, adducendo, come motivazione, la necessità di spiegare difese avverso gli atti sanzionatori. La DTL oppone diniego sulla base delle seguenti considerazioni: 1. il DM del 04.11.1994 n. 757 sottrae all’accesso gli atti ispettivi per sottrarre i lavoratori da potenziali azioni discriminatorie e pressioni indebite o ritorsioni da parte del datore di lavoro; 2. l’avvenuta cessazione di un rapporto di lavoro non esclude l’esigenza di riservatezza del lavoratore; 3. le esigenze di difesa risultano tutelate dalla motivazione stesa nel verbale; 4. l’istanza di accesso sarebbe manchevole di una motivazione dettagliata in grado di consentire all’amministrazione di cogliere l’effettiva utilità della documentazione richiesta. Il diniego può essere avversato?



Premessa

Le recenti statuizioni emesse dal Consiglio di Stato in materia di accesso agli atti del procedimento ispettivo sembra che abbiano portato a una svolta restrittiva circa la possibilità di prendere visione delle dichiarazioni rese dai lavoratori escussi nel corso della verifiche. In particolare le sentenze hanno affermato che, salve specifiche e motivate esigenze, le dichiarazioni istruttorie rilasciate agli organi di vigilanza dai lavoratori debbano essere sottratte all’accesso. Al riguardo l’interesse alla riservatezza del lavoratore, quale potenziale vittima di condotte ritorsive e discriminatorie, è stato ritenuto prevalente rispetto al diritto di difesa dagli atti sanzionatori. Premesso il rango primario e costituzionalmente rilevante di entrambi gli interessi, pare che la scelta compiuta dai giudici amministrativi si ponga in controtendenza rispetto alle recenti riforme che hanno interessato il settore pubblico e che sono state mosse dalla necessità di rendere la P.A. più accessibile, semplice, trasparente e alla portata di tutti. Non è questa la sede per un’analitica illustrazione della materia; è semmai sufficiente osservare che tale trasparenza non può ritenersi realizzata solo mediante la pubblicazione on line dei curricula dei dipendenti o degli stipendi di questi, essendo piuttosto essenziale per i cittadini conoscere le ragioni e i criteri che sorreggono le decisioni dell’azione amministrativa, onde rendere quest’ultima effettivamente conforme ai canoni costituzionali.

L’accesso agli atti e il pregiudizio per il dichiarante (controinteressato)

Il caso che occupa riguarda un provvedimento di diniego adottato dalla DTL nei confronti di un’istanza di accesso agli atti depositata da Alfa, destinataria di provvedimenti sanzionatori. Per offrire un punto di vista sulla vicenda pare agli scriventi opportuno analizzare in successione i singoli capi su cui si fonda l’atto di diniego, il quale, in sintesi, sembra trasporre le motivazioni addotte dal Consiglio di Stato con le celeberrime sentenze recentemente rese in materia di accesso.

Il diniego viene motivato innanzitutto sull’esigenza di preservare la riservatezza e l’identità dei dipendenti autori delle dichiarazioni, allo scopo di sottrarli a potenziali azioni discriminatorie e pressioni indebite o ritorsioni da parte del datore di lavoro. A sostegno di tale assunto viene richiamato il DM del 04.11.1994 n. 757; rispetto alla legittimità di tale assunto si registrano orientamenti ondivaghi.

  1. L’attuale arresto del Consiglio di Stato e del Ministero del Lavoro

Secondo il recente arresto “nell’ottica di un corretto bilanciamento fra contrapposte esigenze costituzionalmente e legislativamente garantite, non può ritenersi sussistente una recessività generalizzata della tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva rispetto alle esigenze di tutela degli interessi giuridicamente rilevanti delle società che richiedono l’accesso agli atti relativi, ma deve al contrario ritenersi in via generale prevalente, se non assorbente, la tutela apprestata dall’ordinamento alle esigenze di riservatezza delle suddette dichiarazioni, contenenti dati sensibili la cui divulgazione potrebbe comportare, nei confronti dei lavoratori, azioni discriminatorie o indebite pressioni”. I Giudici amministrativi hanno ritenuto che tali conclusioni - relative alle istanze di accesso promosse da società datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni ispettive - per il principio di non contraddizione devono ritenersi estensibili anche nei confronti delle richieste di accesso avanzate da società non datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le citate dichiarazioni, ma alle medesime legate da un vincolo di coobbligazione solidale.

Il Ministero del Lavoro con circolare prot. 19324 - n. 43/2013 e lettera circolare 37/008051 del 02/05/2014 ha recepito tale orientamento con la conseguenza che le DTL, fino a diverso indirizzo, sono tenute ad applicare la decisione dell’organo apicale.

  1. L’indirizzo favorevole all’ostensione degli atti

Ciò tuttavia non priva di difesa l’istante, il quale potrebbe addurre a sostegno delle proprie ragioni l’altro orientamento altrettanto valido secondo cui la norma regolamentare contenuta nel DM 757 cit. sarebbe contrastante con l’art. 24 Cost. e, quindi, non applicabile al caso controverso. In particolare i Giudici di Palazzo Spada hanno stabilito che in tale ipotesi “si deve disapplicare l’art. 2, comma 1, lett. c), D.M. 4 novembre 1994, n. 757, che sottrae al diritto di accesso le dichiarazioni rese dai lavoratori in occasione di indagini ispettive a carico del loro datore di lavoro fino a quando non sia cessato il rapporto, ritenendolo in palese contrasto con l’art. 24, L. 7 agosto 1990, n. 241”. Si aggiunga che quando gli atti oggetto di istanza di accesso abbiano costituito il materiale istruttorio sul quale vengono fondati provvedimenti, non di archiviazione, bensì sanzionatori, la stessa giurisprudenza amministrativa è stata tendenzialmente propensa a consentire l’accesso in considerazione della prevalenza del diritto di difesa.

Considerazioni critiche

A giudizio degli scriventi l’indirizzo restrittivo presenta significative perplessità.

  1. Pregiudizio concreto

In primis, ammesso e non concesso che l’art. 2 del DM 757 cit. sia legittimo, non pare corretto richiamare, a sostegno del diniego all’ostensione degli atti, un pericolo astrattamente inteso, dovendo semmai ritenere che tale requisito vada vagliato in concreto. In altre parole, il DM 757 cit., postula un pericolo correlato alle circostanze specifiche.

  1. Onere della prova

Logica vuole, in secundis, che l’onere della prova circa la sussistenza del pregiudizio ricada sull’amministrazione che allega la circostanza. Né potrebbe essere diversamente, stante sia il principio negativa non sunt probanda, sia la circostanza per cui il possesso degli elementi dimostrativi del pregiudizio non potrebbe che essere appannaggio dell’organo accertatore. Giusta pertanto è la statuizione del TAR Umbria, che nell’annullare l’atto di diniego ha stabilito che “[…] la sottrazione all’accesso degli atti dell’attività ispettiva in materia di lavoro postula che risulti un effettivo pericolo di pregiudizio per i lavoratori o per i terzi, sulla base di elementi di fatto concreti, e non per presunzione assoluta, in sintonia con quanto disposto dagli artt. 2, comma 1, lett. c), e 3, comma 1, lett. c), del D.M. 4 novembre 1994, n. 757”. Peraltro un elemento rilevante per valutare l’eventuale sussistenza del pregiudizio è la volontà del lavoratore. Quest’ultimo infatti è soggetto controinteressato rispetto all’istante e, come tale, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 184/06, deve essere notiziato della richiesta di accesso, affinché sia posto in grado di manifestare un’eventuale opposizione all’ostensione degli atti. Ove il lavoratore non esprima alcuna opposizione si potrebbe desumere la carenza di un effettivo e concreto pregiudizio, perché difetterebbe la presa di posizione da parte di colui cui l’amministrazione ascrive aprioristicamente la fattispecie del rischio.

  1. Conclusione del rapporto di lavoro

Tertium, non pare che il pregiudizio possa essere allegato successivamente alla conclusione del rapporto di lavoro, se non altro perché l’art. 3 lett. c) del citato DM 757 cit. ammette un giudizio di diniego “finché perduri il rapporto di lavoro”. Ciò significa che una volta concluso il rapporto, il pregiudizio non pare più invocabile come causa ostativa all’ostensione degli atti. Il corollario è confermato dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui le ragioni che giustificano la segretezza devono ritenersi insussistenti allorché i documenti riguardano un rapporto di lavoro già conclusosi.


La motivazione del verbale come forma di difesa ostativa all’accesso


Appare sintomatica di un atteggiamento dispotico, e pertanto meritevole di essere fermamente censurato, l’affermazione contenuta nel provvedimento diniego della DTL
(che si ritrova anche nelle recenti sentenze del Consiglio di Stato sopra criticate) secondo cui le esigenze di difesa dell’istante risulterebbero tutelate, poiché il verbale di contestazione conterrebbe un’ampia ed articolata motivazione.

A giudizio degli scriventi, tale affermazione può avere un barlume di plausibilità nei procedimenti che garantiscono ab origine la partecipazione dei soggetti interessati, ai quali invero è riconosciuta, anche in corso di istruttoria, la facoltà di accedere, anche mediante istanze ex art. 10 della L. n. 241 cit., agli atti e alla documentazione posta alla base della determinazione finale, la cui motivazione diventa così sindacabile rispetto a “risultanze istruttorie” già nella sfera di conoscibilità del destinatario.

Tuttavia, se tale prospettazione viene rapportata a procedimenti, come quello ispettivo, intimamente caratterizzati da esigenze di segretezza, la stessa perde ogni valenza. In tali procedimenti, invero, ai soggetti coinvolti viene ordinariamente negata, antecedentemente all’adozione del verbale ispettivo, la possibilità di conoscere “le risultanze istruttorie”, e cioè quegli elementi che costituiscono proprio il parametro e la misura che consente di sindacare la ragionevolezza della motivazione.

Sostenere, in altre parole, che nei verbali ispettivi la sola motivazione sia in grado di consentire al destinatario del provvedimento di spiegare i propri diritti di difesa, precludendo a costui la possibilità di conoscere le risultanze istruttorie, significa sostanzialmente richiedere un atteggiamento fideistico nei confronti dell’operato istruttorio dell’amministrazione, non certo in linea con le regole di uno Stato di diritto.

In altre parole: ipse dixit!

Osservazioni critiche

L’assunto va necessariamente confutato richiamando concetti manualistici.

La motivazione viene stesa dall’amministrazione sull’analisi degli elementi acquisiti in corso di istruttoria. In sintesi, dalla lettura di tali atti l’amministrazione trae il proprio convincimento, che viene poi esternato con la motivazione. Ciò è chiaramente stabilito dall’art. 3 della L. n. 241/90 e s.m.i., secondo cui il percorso argomentativo va posto “in relazione alle risultanze dell’istruttoria. La rilevanza degli atti istruttori nel procedimento ispettivo è poi testimoniata sul piano normativo, atteso che l’art. 33 comma 4 lett. a) della L. n. 183/10 (c.d. collegato lavoro) impone all’organo accertatore di indicare “puntualmente” nel verbale ispettivo “le fonti di prova degli illeciti rilevati”, ossia gli elementi su cui si fonda la determinazione assunta e la relativa motivazione.

Solo per effetto della relazione tra fonti di prova e motivazione il destinatario dell’atto è in grado di analizzare se l’iter-logico seguito dall’amministrazione sia, rispetto all’istruttoria svolta, coerente ovvero carente; altrimenti non si spiegherebbe la ragione per cui il Legislatore del c.d. collegato lavoro abbia previsto che il verbale ispettivo debba contenere “la puntuale indicazione delle fonti di prova. Negare l’accesso a tali atti significa, in sostanza, precludere al soggetto coinvolto nell’accertamento quell’interesse alla conoscibilità che, di per sé, legittima l’ammissibilità a conseguire l’ostensione degli atti istruttori.

Inoltre nel procedimento ispettivo la fase deputata a tale verifica si apre proprio con la notifica del verbale conclusivo, giacché solo a partire da tale momento si realizzano le garanzie di partecipazione, le quali verrebbero inesorabilmente vulnerate nell’ipotesi in cui il destinatario del provvedimento afflittivo non fosse posto nella condizione di verificare la correttezza dell’istruttoria.

Non v’è poi chi non veda come la valutazione degli elementi istruttori sia un’operazione ad alto tasso di soggettività, in cui l’analisi delle risultanze istruttorie può condurre in linea di principio a tante motivazioni divergenti, e a risultati differenti, quanti sono rispettivamente i soggetti investiti del potere decisionale. E allora, sostenere che la motivazione sia di per sé appagante, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, indipendentemente dalla conoscenza degli atti istruttori, significa larvatamente riconoscere all’organo decisionale un’immunità da forme di controllo che non è accettabile in un ordinamento pluralistico e di diritto e non in linea con le recenti riforme della P.A. tese tutte a garantire maggiore trasparenza.

La motivazione posta a base dell’accesso

Il provvedimento di diniego della DTL merita di essere censurato anche nella parte in cui afferma che l’istanza di accesso sarebbe manchevole di una motivazione in grado di consentire all’amministrazione di cogliere l’effettiva utilità della documentazione richiesta
.

L’assunto non è condivisibile, perché si pone in chiara diatonia con l’insegnamento tradizionale formatosi sull’interesse che giustifica l’accesso degli atti.

L’art. 22 del comma I lett. b) della L. n. 241 cit. e l’art. 1 del d.P.R. n. 184/06 riconoscono la titolarità del diritto di accesso in capo a tutti coloro “[…] che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.

  1. Il carattere strumentale dell’accesso

La miglior dottrina e la giurisprudenza dominante ritengono che la locuzione “tutelata” contenuta nella sopra citata non richiede che la situazione soggettiva debba fruire di immediata tutela giurisdizionale e corrispondere alle posizioni di diritto soggettivo e interesse legittimo, ma che tale situazione sia qualificata dall’ordinamento giuridico, nel senso che debba trattarsi di un “[…] qualsiasi interesse differenziato e protetto dall’ordinamento, purché serio e non emulativo, anche se non immediatamente azionabile in giudizio”.

L’accesso agli atti, infatti, è istituto finalizzato ad offrire al titolare poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di una situazione giuridicamente rilevante, non necessariamente correlata all’esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente.

Infatti tale diritto deve trovare soddisfazione “[…] a prescindere dall’utilità che il richiedente ne potrà trarre, cioè anche quando l’azione giudiziaria, già proposta, risulti palesemente infondata oppure quando il richiedente ha fatto già decorrere il termine decadenziale di impugnazione […], in quanto il diritto all’accesso ai documenti amministrativi risulta finalizzato a soddisfare il mero bisogno di conoscenza […]” dei presupposti a base della determinazione assunta dall’amministrazione.

  1. La natura astratta e acausale dell’accesso

La natura strumentale della posizione soggettiva, riconosciuta e tutelata dall’ordinamento, caratterizza marcatamente la strumentalità dell’azione correlata e concentra l’attenzione del legislatore, e quindi dell’interprete, sul regime giuridico concretamente riferibile all’azione, al fine di assicurare, al tempo stesso, la tutela dell’interesse, ma anche la certezza dei rapporti amministrativi e delle posizioni giuridiche di terzi contro-interessati. Da qui discende la natura astratta o acausale del diritto d’accesso, il quale può essere fatto valere senza che l’Amministrazione (o il controinteressato) possa sindacare nel merito la fondatezza della pretesa o dell’interesse sostanziale cui quel diritto è correlato e strumentalmente collegato.

L’assunto è stato più volte affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui “l’interesse all’accesso agli atti amministrativi deve essere valutato in astratto, essendo escluso ogni apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che l’interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso […]”.

In tal senso, il carattere attuale e concreto dell’interesse posto a base dell’istanza postula che quest’ultima venga sì motivata, ma non certo mediante l’illustrazione delle ragioni di doglianza che eventualmente si intendono muovere avverso l’operato dell’amministrazione.

In primis, come sopra descritto, non è certo detto che l’accesso venga spiegato per instaurare una controversia, atteso che l’attualità dell’interesse all’ostensione non va valutato in relazione alle esigenze di tutela della situazione giuridicamente sottostante, bensì sulla base della sola esigenza conoscitiva, essendo a tal fine utile al richiedente verificare se effettivamente sussistano o meno margini per azionare domanda giustiziale o giurisdizionale avverso il provvedimento della P.A..

Ciò vale a maggior ragione laddove, come nel caso di specie, il provvedimento offra al destinatario la possibilità di definire in maniera agevolata il rapporto con la P.A., mediante l’esborso di sanzioni quantificate in misura ridotta che invece vedrebbero aumentare i rispettivi importi ove fossero pagate al di là dei termini funzionali al beneficio accordato. Pertanto solo attraverso l’ostensione degli atti richiesti il destinatario del provvedimento è in grado di scegliere se:

  1. pagare in misura ridotta;

  2. non pagare;

  3. instaurare il contenzioso, anche di natura giustiziale, contro la P.A.

In secundis, anche laddove l’istante decida di esercitare l’accesso con l’unica finalità di rimuovere gli effetti pregiudizievoli arrecati dall’atto lesivo, pare ovvio che le ragioni di doglianza debbano essere contenute, non nell’istanza di accesso, ma semmai nel ricorso amministrativo o giurisdizionale, il cui sindacato è rimesso rispettivamente all’organo deputato all’esercizio dell’autotutela decisoria, ovvero al Giudice naturale ex art. 25 Cost., ma non certo all’amministrazione destinataria dell’istanza di accesso.

Tale spunti riflessivi pertanto sottendono che la qualificazione dell’interesse sotteso all’accesso può benissimo essere soddisfatta prospettando esigenze difensive, non ulteriormente argomentate, e ciò, a fortiori, nell’ipotesi in cui, come il caso che occupa, l’istante sia stato destinatario di un provvedimento ablatorio personale, di per sé lesivo della propria sfera giuridica. In tal modo, il rapporto obbligatorio di credito viene costituito dall’organo pubblico sulla base di atti strumentalmente collegati alla situazione giuridica del soggetto individuato come debitore e che legittimano l’interesse, diretto, concreto e attuale, di costui a conseguire l’ostensione di quelle “fonti di prova”, poste dalla P.A. a fondamento della propria pretesa creditoria.

Peraltro il collegamento tra l’interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza è responsabilmente riconosciuto non solo, come testé descritto, dall’art. 33 comma 4 lett. a) della L. n. 183/10, ma dalla stesso Ministero del Lavoro, atteso che i verbali ispettivi dedicano un’apposita sezione agli strumenti di tutela esercitabili dal destinatario per avversare il provvedimento conclusivo degli accertamenti.

Alla luce di tali argomentazioni e considerato ancora che per la giurisprudenza prevalente l’interesse che legittima l’accesso “[…] va inteso in senso ampio, essendo sufficiente che la documentazione richiesta sia, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante di cui sia titolare l’istante, e non occorrendo altresì che essa costituisca strumento di prova diretta della lesione di tale interesse”, non può che conseguire, a giudizio degli scriventi, l’illegittimità del diniego opposta dalla DTL, nel punto in cui ha negato l’accesso per asserita genericità della motivazione posta a base dell’istanza.

Considerazioni finali

A quanto sopra occorre una chiosa. Le recenti sentenze restrittive del Consiglio di Stato sembra che omettino di considerare due aspetti. Il primo riguarda l’utilità dell’accesso, che secondo i Giudici di Palazzo Spada potrebbe essere soddisfatta con un’ordinanza istruttoria emessa dal Giudice adito dal ricorrente per la tutela della propria posizione. Ciò è vero e semmai costituisce dimostrazione che il diritto di difesa alla fine prevale sulla riservatezza. L’altro aspetto, per certi aspetti curioso se non grottesco, è che anche la Guardia di Finanza è legittimata a esercitare controlli in materia lavoristica specie ove siano diretti a reprimere fenomeni di lavoro sommerso. L’art. 52 del d.P.R. n. 633/72 impone ai militari di verbalizzare tutte le operazioni poste in essere nel corso dell’attività stessa. Tant’è che il processo verbale di contestazione (p.v.c.) deve contenere i fatti e gli accadimenti materiali, oltre che le eventuali dichiarazioni raccolte nel corso della verifica. Ricorre ordinariamente che l’ispezionato all’esito delle verifiche dei militari sia in possesso delle dichiarazioni rese dai lavoratori senza neppure esercitare il diritto di accesso, semplicemente perché allegate al p.v.c.. Ebbene, ciò significa che a fronte di una medesima fattispecie l’accesso e il possesso degli atti da parte del soggetto ispezionato risulterà condizionato a seconda che la verifica sia stata eseguita dall’Ispettorato del Lavoro o dalla Guardia di Finanza: due pesi e due misure.


NOTE

i Consiglio di Stato , sez. VI, sentenza 24.02.2014 n. 863; Cons. di Stato, Sez. VI, 11 luglio 2013, n. 4035.

ii Cfr. Circolare Ministero Lavoro prot. 19324 - n. 43/2013 e lettera circolare prot. 37/008051 del 02/05/2014.

iii Cfr. Cons. Stato Sez. VI, 13/12/2006, n. 7389; Cons. Stato, sez. VI, 3 maggio 2002, n. 2366; Cons. Stato, sez. VI, 10 aprile 2003, n. 1923; T.A.R. Veneto Venezia Sez. I, 06/02/2006, n. 301; T.A.R. Piemonte Torino Sez. I, 14/12/2005, n. 4022.

iv Cfr. Cons. Stato Sez. VI, 09/11/2010, n. 7979; T.A.R. Veneto Venezia Sez. III, 24/12/2012, n. 1597.

v Cfr. T.A.R. Umbria Perugia Sez. I, Sent., 10-05-2013, n. 286.

vi Cfr. T.A.R. Lombardia Milano, 26/08/1995, n. 1083.

vii Cfr. Cons. Stato Sez. III, 07/08/2012, n. 4530.

viii Cfr. F.C. Scoca “Diritto Amministrativo” G. Giappichelli, seconda edizione, pagg. 242 e ss..

ix Cfr. Cons. St. n. 6545/07, e prima ancora Cons. St. Ad. Plen. n. 6/06; e ancora TAR Veneto Sez. I, n. 932/11.

x Cfr. T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 09/07/2013, n. 598; cfr. Cons. Stato Sez. VI, 18/09/2013, n. 4653; Cons. Stato Sez. VI, 21/01/2013, n. 316; Cons. Stato Sez. IV, 22/05/2012, n. 2974.

xi T.A.R. Basilicata Potenza Sez. I, 04/12/2012, n. 540.

xii Cfr. T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, 09/01/2014, n. 33; T.A.R. Lazio Roma Sez. III, 13/03/2013, n. 2660; Cons. Stato Sez. VI, 12/03/2012, n. 1403; Cons. Stato, 23/12/2010, n. 9378; Cons. Giust. Amm. Sic., 16/11/2011, n. 846.

xiii Cons. Stato Sez. III, 07/08/2012, n. 4530; T.A.R. Puglia Bari Sez. III, 07/05/2007 n. 1263.

xiv Cfr. Cons. Stato Sez. VI, 14/08/2012, n. 4566; Cons. Stato Sez. V, 22/06/2012, n. 3683.

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