Licenziamento orale: l’onere della prova spetta al lavoratore

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Licenziamento orale: l’onere della prova spetta al lavoratore

E’ stata definitivamente respinta la domanda proposta da un lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro, volta a conseguire l'accertamento dell’intercorrenza, fra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato nonché della nullità/illegittimità del licenziamento che asseriva gli fosse stato intimato in forma orale e per ragioni ritorsive.

La Corte d’appello aveva condiviso la statuizione del giudice di prime cure, il quale, omessa ogni indagine sulla natura del rapporto inter partes, aveva ritenuto che non fossero state né allegate né dimostrate circostanze atte a comprovare una estromissione del ricorrente dal contesto lavorativo in oggetto.

Nello scrutinio delle acquisizioni probatorie, i giudici di gravame erano pervenuti al convincimento che non fossero desumibili i tratti di una manifestazione di volontà del datore, indirizzata ad una risoluzione del rapporto "lavorativo- professionale in essere", atteso che l'unico esito verificatosi era quello della sospensione di ogni determinazione in ordine alla continuazione del rapporto.

Nell’assoluta mancanza di dati idonei ad attestare lo scioglimento del rapporto di lavoro per iniziativa aziendale, era inoltre emersa l’ultraneità di ogni aggiuntiva indagine in ordine alla natura del rapporto di lavoro intercorso fra le parti.

L’interessato aveva impugnato tali conclusioni davanti alla Corte di legittimità, lamentando, tra gli altri motivi, la violazione dell'art. 2697 c.c. ex all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.

Secondo la difesa del ricorrente, la Corte di merito aveva erroneamente trascurato i dati documentali acquisiti e rimasti non oggetto di alcuna contestazione ex adverso, dai quali era desumibile l'intervenuta risoluzione del rapporto per iniziativa del datore.

Licenziamento orale, distribuzione onere probatorio

La Sezione lavoro della Corte di cassazione, con sentenza n. 9108 del 1° aprile 2021, ha giudicato infondata tale doglianza, sottolineando come la stessa, riguardando sia la ricostruzione in fatto della vicenda solutoria del rapporto sia la sussunzione di tale vicenda nell'archetipo normativo di riferimento, suggeriva una inammissibile richiesta di una rivalutazione dei fatti storici, discostandosi dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all'art. 360 cod. proc. civ.

La stessa, ad ogni modo, non era nemmeno idonea a scalfire la statuizione impugnata: dal quadro delle acquisizioni probatorie in atti, non era riscontrabile alcun indice significativo dell'esistenza di un negozio giuridico unilaterale e recettizio di parte datoriale, esplicativo della propria volontà di risolvere il rapporto in essere, con definitiva estromissione del prestatore dal posto di lavoro.

Per contro, era emerso che l'unico esito verificatosi era stato quello della sospensione di ogni determinazione sulla continuazione o sulla fine del rapporto sino al momento di quella che sarebbe stata la scelta del ricorrente, in merito alla adesione o meno al predetto accordo.

Cassazione: onere della prova a carico del lavoratore che impugna il licenziamento

Del resto – ha evidenziato la Corte di legittimità – era onere del lavoratore, avendo dedotto che il rapporto di lavoro aveva avuto conclusione a causa del licenziamento intimatogli dal datore di lavoro, a dover provare, in primo luogo, il licenziamento stesso, quale fatto costitutivo dei diritti fatti valere.

La Corte ha richiamato, in proposito, i principi pacificamente enunciati in sede di legittimità, secondo cui il lavoratore, che agisca in giudizio per la dichiarazione dell'illegittimità di un licenziamento, ha l’onere di provare l'esistenza del licenziamento medesimo, quale fatto costitutivo dei diritti fatti valere, e a questo fine non può ritenersi sufficiente la prova della cessazione di fatto delle prestazioni lavorative.

E ancora: “il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa”.

Nel caso in oggetto, in definitiva, la pronuncia impugnata aveva correttamente sussunto la fattispecie esaminata nell'ambito del paradigma normativo di riferimento, conformandosi ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e sottraendosi, pertanto, allo specifico motivo di doglianza formulato dal ricorrente.

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