Preclusione probatoria, le restrizioni della Corte costituzionale sul processo tributario

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La preclusione probatoria prevista dalla norma fiscale, per cui le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa, può ritenersi conforme alla Costituzione solo se interpretata in modo restrittivo.

Lo afferma la sentenza n. 137 del 28 luglio 2025 della Corte Costituzionale, pronunciata a seguito della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Roma, sezione 28, in merito all’art. 32, commi 4 e 5, del d.P.R. 600/1973, con riferimento a diversi parametri costituzionali e internazionali.

Caso concreto: richiesta di documentazione rimasta inevasa

Il contenzioso riguarda una plusvalenza contestata dall’Agenzia delle Entrate a una contribuente per l’anno d’imposta 2015. Prima dell’emissione dell’atto impositivo, l’Amministrazione aveva richiesto documentazione giustificativa delle spese che avrebbero potuto spiegare l’aumento di valore dei terreni venduti.

La contribuente non ha risposto alla richiesta documentale nella fase istruttoria. Solo in sede contenziosa ha prodotto fatture giustificative.

L’Agenzia ha eccepito l’inutilizzabilità dei documenti tardivamente presentati, invocando l’art. 32, comma 4, del d.P.R. 600/1973.

Preclusione probatoria

Il comma 4 dell’art. 32 del DPR n. 600 del 1973 stabilisce che le notizie, i dati, gli atti, i documenti, i libri e i registri non trasmessi o esibiti in risposta agli inviti dell’amministrazione finanziaria non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, né nella fase amministrativa né in quella contenziosa. La norma impone inoltre che il contribuente sia informato di tale effetto contestualmente alla richiesta da parte dell’ufficio.

Il comma 5 introduce un’eccezione alla preclusione: essa non opera se il contribuente, in sede di ricorso e allegando i documenti all’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dichiari di non aver potuto adempiere alla richiesta per una causa a lui non imputabile.

Secondo la Corte di giustizia tributaria di Roma, la disposizione in esame si tradurrebbe in una sanzione a contenuto punitivo, assimilabile alle cosiddette “sanzioni euro-penali”, come delineate dalla giurisprudenza della Corte EDU. Di conseguenza, andrebbero applicate tutte le garanzie del giusto processo previste dall’art. 6 CEDU, alla luce dei noti “criteri Engel” (natura afflittiva, finalità deterrente, generalità dei destinatari).

Diritti fondamentali potenzialmente lesi

Il diritto all’azione e al giudice naturale

La limitazione imposta dall’art. 32 comprometterebbe il diritto di azione e quello di adire un giudice imparziale, previsti da:

  • Art. 6 CEDU,
  • Art. 8 della Dichiarazione universale dei diritti umani,
  • Art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE),
  • Art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP),
  • Articoli 24 e 25 della Costituzione italiana.

Secondo il giudice rimettente, impedire al contribuente di far valere le proprie ragioni anche con documenti probatori, significa negare l’effettività dell’azione e della tutela giurisdizionale.

Il diritto alla pubblica udienza

La preclusione probatoria inciderebbe anche sul diritto alla pubblica udienza, compromettendo la trasparenza del processo e il controllo pubblico sull’operato giurisdizionale. Tale diritto è sancito, oltre che dalla CEDU, anche:

  • dall’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti umani;
  • dall’art. 25 della Costituzione italiana.

Il diritto alla difesa

Infine, la norma limiterebbe il diritto alla difesa piena e effettiva, compreso il diritto a produrre prove a discarico. Inoltre, renderebbe impossibile al contribuente contrastare efficacemente l’accertamento, privandolo di strumenti fondamentali per la tutela della propria posizione giuridica.

La Corte Costituzionale osserva che, già prima del suo intervento, la giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione) aveva elaborato un'interpretazione restrittiva dell’art. 32, comma 4, riconoscendone l’impatto potenzialmente lesivo sul diritto di difesa del contribuente. Proprio per questo, la sua applicazione deve essere limitata e rigorosa.

Finalità delle norme

Dalla giurisprudenza emerge che le disposizioni oggetto di censura sono concepite per promuovere un confronto anticipato tra contribuente e amministrazione finanziaria, finalizzato a chiarire preventivamente le rispettive posizioni e, così facendo, evitare inutili contenziosi, risparmiando risorse economiche e procedurali. In questo contesto, il contribuente ha la possibilità di rispondere alle richieste e contribuire attivamente alla ricostruzione dei fatti, oppure di non rispondere e attendere l’esito dell’accertamento.

In ogni caso, rimane comunque garantita la facoltà di presentare documentazione utile a dimostrare che il reddito accertato, o stimato, è composto – anche solo in parte – da redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo d’imposta, come previsto dall’art. 38, comma 6, del DPR n. 600 del 1973.

Partendo da queste premesse, la Corte ritiene con sentenza n. 137 del 28 luglio 2025, che le questioni di legittimità non siano fondate, nella misura in cui le norme in esame risultano coerenti con il nuovo approccio costituzionale al rapporto tributario, che ha superato le visioni stataliste del passato – incentrate su un rapporto gerarchico e unilaterale tra Stato e cittadino – per abbracciare un modello fondato sulla solidarietà e sulla collaborazione, in cui il contribuente è parte attiva e responsabile all’interno della comunità.

Limiti all’applicazione della preclusione

Alla luce dei principi costituzionali, la Corte costituzionale sottolinea che la previsione dell’inutilizzabilità degli elementi informativi non forniti in fase di controllo deve essere interpretata in modo fortemente restrittivo. Ciò non solo conferma l’orientamento già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, ma impone un’ulteriore limitazione del campo applicativo della norma.

Infatti, pur trattandosi formalmente di una preclusione di natura processuale, questa può produrre effetti sostanziali rilevanti, ad esempio impedendo al contribuente di dimostrare l’esistenza di un reddito inferiore rispetto a quello accertato, con conseguenze sulla determinazione dell’imposta dovuta.

In situazioni simili, la norma può assumere i tratti di una sanzione sostanzialmente punitiva, ed entrare quindi in contrasto con principi fondamentali come quello del “nemo tenetur se detegere” – cioè il diritto a non autoaccusarsi – che costituisce un corollario essenziale del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione.

Di conseguenza, la Corte ritiene che la preclusione probatoria debba riguardare esclusivamente quegli elementi che abbiano un contenuto inequivocabilmente favorevole al contribuente. In altre parole, la sanzione non può estendersi a documenti che presentino un contenuto misto o potenzialmente sfavorevole, come ad esempio un registro contabile che riporti anche annotazioni pregiudizievoli per il contribuente.

Solo in questi termini ristretti – e non oltre – è possibile considerare legittima la norma in questione. In questa visione, la disposizione assume una funzione collaborativa: incoraggiare il contribuente a cooperare in modo trasparente con l’amministrazione finanziaria, evitando il ricorso a un processo tributario superfluo e incentivando la soluzione delle controversie già in fase amministrativa.

Principio sul divieto di richiedere dati già in possesso dell’amministrazione

Nel solco dell’interpretazione restrittiva dell’art. 32, la Corte costituzionale afferma la necessità di ampliare ulteriormente il principio – già affermato dalla giurisprudenza – secondo cui non possono essere richiesti al contribuente documenti o informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria.

In particolare, tale principio assume oggi una valenza ancora più rilevante, alla luce dell’evoluzione normativa e tecnologica che ha condotto alla digitalizzazione e centralizzazione dei dati fiscali.

La Corte chiarisce che, se l’amministrazione finanziaria è in grado di reperire autonomamente certi dati attraverso le proprie banche dati, non può pretendere che sia il contribuente a fornirli. Costringerlo a farlo, infatti, imporrebbe un onere ingiustificato, con il rischio di sanzioni sproporzionate in caso di errori formali o omissioni involontarie, che potrebbero rendere inutilizzabili prove perfettamente rilevanti.

Un nuovo modello di rapporto tra Fisco e contribuente

Soltanto se reinterpretata e limitata nei suoi effetti, la norma oggetto di censura – sottolinea la Corte con pronuncia n. 137/2025 – può trovare una collocazione coerente all’interno del più ampio percorso evolutivo che caratterizza i rapporti tra autorità pubblica e cittadino-contribuente. Tale percorso segna un progressivo superamento dell’impostazione tradizionalmente autoritaria del sistema tributario, in favore di una maggiore apertura alla partecipazione attiva del contribuente all’interno del procedimento fiscale.

Questa trasformazione riflette una visione moderna, ispirata a principi di cooperazione e trasparenza, che promuove un modello di compliance volontaria e confronto preventivo tra Fisco e contribuente, valorizzato anche dalla più recente riforma del sistema tributario italiano.

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