Trasferimento illegittimo? Licenziamento disciplinare da annullare

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Trasferimento illegittimo? Licenziamento disciplinare da annullare

E' illegittimo il licenziamento disciplinare del dipendente che, trasferito senza valide ragioni, non si presenta nella nuova sede, laddove risulti che il datore di lavoro non ha agito in buona fede.

Il dipendente rifiuta il trasferimento: è legittimo il licenziamento?

Con sentenza n. 519 depositata il 27 marzo 2024, il Tribunale di Tivoli, Sezione Lavoro, ha accolto il ricorso di due lavoratori che avevano convenuto in giudizio l'impresa datrice di lavoro al fine di far dichiarare illegittimo il provvedimento di trasferimento adottato nei loro confronti.

La loro domanda, altresì, era diretta alla declaratoria di illegittimità dei licenziamenti per giusta causa loro comminati per non essersi presentati nella nuova sede di lavoro.

I ricorrenti, dopo essere stati trasferiti presso un appalto in scadenza e poi sottoposti ad una procedura di licenziamento collettivo, erano stati nuovamente trasferiti a 400 km di distanza e con un preavviso di pochi giorni, presso un sito in cui non avevano potuto recarsi.

Per questo motivo erano stati oggetto di licenziamento disciplinare per asserita giusta causa, motivato da assenza ingiustificata.

Secondo i ricorrenti, i trasferimenti lamentati erano avvenuti senza valide ragioni giustificative e nella consapevolezza, da parte del datore di lavoro, che il primo sito di destinazione sarebbe stato chiuso dopo breve tempo.

Trasferimento del lavoratore: quando può dirsi legittimo

Il Tribunale, in primo luogo, si è soffermato sulla fattispecie del trasferimento del lavoratore.

Nella vicenda in esame, infatti, la valutazione della legittimità dei licenziamenti era strettamente connessa ad una valutazione di legittimità dei trasferimenti operati.

Nella sua disamina, l'organo giudicante ha ricordato come il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l'indicazione dei motivi.

Tuttavia, quando venga contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le ragioni che lo hanno determinato, fornendo la prova delle reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento.

In altri termini, ciò che il datore di lavoro è tenuto a provare è l’effettività del nesso causale tra il trasferimento e le comprovate ragioni del medesimo.

Il datore, infatti, ha la facoltà di scegliere tra le varie possibilità organizzative quella che meglio risponda alle esigenze dell’impresa, non essendo sindacabile il merito della scelta datoriale tra le diverse soluzioni utilizzabili tra cui rientra certamente anche il trasferimento.

Va anche considerato, però, che il datore di lavoro, in applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede, qualora possa far fronte alle richiamate ragioni avvalendosi di differenti soluzioni organizzative, per lui paritarie, deve preferire quella meno gravosa per il dipendente.

E ciò soprattutto nel caso in cui questi deduca e dimostri la sussistenza di serie ragioni ostative al trasferimento.

In tale conteso, il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa.

Da tale principio discende che l'accertamento non può essere limitato alla situazione esistente nella sede di provenienza, ma deve estendersi anche alla sede di destinazione del lavoratore, restando a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza di dette ragioni.

Ad ogni modo - ha rammentato il Tribunale - va anche escluso che le ragioni tecniche aziendali possano ledere il diritto del lavoratore alla conservazione della sua professionalità, diritto che ha carattere prevalente rispetto alle esigenze organizzative del datore di lavoro.

La stessa funzione dequalificatoria del trasferimento, inoltre, ne determina l’illegittimità ontologica.

Da quanto detto discende che il potere del datore di lavoro di trasferire i dipendenti va esercitato secondo buona fede e correttezza.

Il caso esaminato: trasferimento illegittimo

I principi richiamati andavano applicati al caso in esame: occorreva verificare, in particolare, se l’onere incombente sul datore di lavoro e relativo a comprovare le ragioni tecnico produttive dei trasferimenti, fosse stato adempiuto.

Sul punto, il giudice del lavoro ha fatto prioritario riferimento alle numerose testimonianze rese nel corso del giudizio.

Ebbene, da un raffronto delle risultanze probatorie, il Tribunale ha escluso che fossero state provate:

  • sia le valide ragioni economico - organizzative dei trasferimenti operati;
  • sia l’impossibilità a ricollocare i lavoratori presso una sede più vicina a quella precedentemente assegnata.

La società datrice di lavoro, infatti, si era limitata a dedurre, senza provarla, la sussistenza di un drastico calo delle lavorazioni che non le consentiva di ospitare i lavoratori ricorrenti.

Dalle testimonianze rese e dalle allegazioni documentali, inoltre, era evidente che la chiusura del sito presso cui erano stati trasferiti i ricorrenti, anche se non ufficiale, era comunque ben nota.

Il giudice di merito, tutto ciò considerato, ha escluso che la datrice di lavoro avesse operato nella gestione dei trasferimenti seguendo e conformandosi ai principi di buona fede e correttezza.

Ne discendeva l'illegittimità dei medesimi trasferimenti.

Si può rifiutare la prestazione in caso di trasferimento illegittimo?

L'accertamento, tuttavia, non era finito.

A questo punto, infatti, occorreva verificare se la datrice, con la sua condotta, avesse reso lecito il rifiuto del lavoratore di prestare la propria opera nel luogo di destinazione.

Sul punto, il Tribunale ha rammentato il pacifico orientamento della Cassazione, secondo la quale, in tema di trasferimento adottato in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, l’inadempimento datoriale non legittima automaticamente il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa.

Vertendosi, difatti, in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell'art. 1460, comma 2, c.c. alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede.

Eccezione di inadempimento e fondatezza del rifiuto

Il giudice di merito, così, a fronte di una eccezione di inadempimento come quella in esame, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse.

Ebbene, secondo il Tribunale di Tivoli, nella vicenda in esame si trattava di un trasferimento, illegittimo, di circa 400 km di distanza dalla prima sede di lavoro, comunicato con un preavviso di soli 5 giorni.

I lavoratori, peraltro, avevano manifestato sin da subito le problematiche relative al detto trasferimento, rendendosi disponibili a prestare l’attività lavorativa in una sede vicina a quella di provenienza.

Comparando, così, i comportamenti extraprocessuali delle parti, se ne ricavava che la parte datoriale non aveva operato nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza.

Di conseguenza, il rifiuto dei lavoratori non poteva considerarsi inadempimento e, anzi, occorreva concludersi per l’insussistenza del fatto loro contestato.

Dipendente reintegrato se il datore non agisce in buona fede

In definitiva, l'organo giudicante ha accertato e dichiarato l’illegittimità e inefficacia dei trasferimenti operati nei confronti dei ricorrenti nonché l’illegittimità del licenziamento loro comminato.

La società datrice, in tale contesto, è stata condannata alla reintegrazione dei dipendenti nella sede di lavoro in precedenza occupata nonché al pagamento, in favore dei medesimi, di un’indennità risarcitoria.

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