Il datore di lavoro può unilateralmente diminuire la retribuzione migliorativa?
Pubblicato il 30 maggio 2014
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Gamma S.p.a. riconosce ad alcuni dipendenti dei trattamenti retributivi superiori rispetto a quelli previsti dal CCNL, sebbene gli stessi abbiano il medesimo inquadramento contrattuale di altri lavoratori ai quali invece vengono applicati i minimi tabellari. Alfa rileva la proprietà di Gamma S.p.a. e di conseguenza decide di rivisitare gli emolumenti retributivi favorevoli per equiparali con quelli contrattualmente previsti dal CCNL e riconosciuti a tutti gli altri dipendenti svolgenti le medesime mansioni. L’operazione è fattibile? E in che modo?
Premessa
Variante della fattispecie di mansioni superiori è l’assegnazione al lavoratore, previo accordo delle parti, di un profilo retributivo superiore rispetto alle mansioni che effettivamente ne caratterizzano l’inquadramento contrattuale. Si tratta di una fattispecie asimmetrica, ma favorevole al lavoratore, perché consente a costui di conseguire spettanze economiche quantitativamente superiori rispetto alla categoria formalmente rivestita. Ci si chiede allora quali siano gli strumenti che l’impresa possa utilizzare nel momento in cui decida di ristabilire la simmetria tra retribuzione e mansioni.
La retribuzione: principi generali
Il contratto di lavoro è un contratto sinallagmatico, perché a fronte dell’obbligazione di svolgere l’attività pattuita all’atto dell’assunzione, il datore di lavoro si impegna a remunerare tale attività mediante retribuzione, determinata prevalentemente in denaro. La retribuzione, in tal senso, costituisce, secondo la definizione generale desumibile dagli artt. 2094 e 2099 c.c., la prestazione fondamentale a cui è obbligato il datore di lavoro nei confronti del lavoratore. I parametri per la relativa quantificazione sono stabiliti dall’art. 36 Cost., secondo cui la retribuzione deve essere proporzionale all’attività prestata dal dipendente e comunque sufficiente a consentire a costui e alla sua famiglia una vita libera e dignitosa. Il compito di applicare tali princìpi è demandata al contratto di lavoro individuale e, in una prospettiva aggregata, al contratto collettivo. Segnatamente quest’ultimo viene considerato il principale, anche se non esclusivo, strumento applicativo dell’art. 36 Cost. Ciò che rileva è che il datore di lavoro all’atto della conclusione del contratto individuale stabilisca un trattamento retributivo non lesivo dei predetti princìpi costituzionali e parametrando ciascun istituto non in forza al principio di onnicomprensività, perché inesistente nel nostro ordinamento, ma in base alle previsioni di legge o di CCNL.
Principio di parità di retribuzione: inesistenza
Alla luce di tali premesse può ben ricorrere l’ipotesi in cui nell’organico aziendale si riscontri personale dipendente che svolga le medesime mansioni e che abbia il medesimo inquadramento contrattuale, ma che invece riceva trattamenti retribuiivi rispettosi dei minimi tabellari, ma tra di loro non omogenei. Invero, costituisce ormai ius receptum la regola per cui non esiste nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell’ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, poiché l’art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva. Ne segue che il datore di lavoro può riconoscere solo ad alcuni dipendenti trattamenti retributivi contrattualmente previsti per mansioni di rango superiore, sebbene tali compiti siano tipici di qualifiche inferiori, per le quali risultano contrattualizzati emolumenti di più basso importo.
Il problema si sposta così sulla facoltà della parte datoriale di rideterminare, in un successivo momento, eventuali trattamenti retributivi favorevolmente riconosciuti ad alcuni dipendenti, onde ricalibrare la sinallagmaticità nei termini generali previsti dai contratti collettivi.
Il principio di irriducibilità della retribuzione
Nell’ambito del rapporto di lavoro vige il principio di irriducibilità della retribuzione, la quale tuttavia riguarda solo l’aspetto qualitativo delle mansioni, cioè la retribuzione che compensa il valore professionale intrinseco alle mansioni che vengono affidate al lavoratore. Qualora gli emolumenti siano corrisposti per compensare particolari disagi o difficoltà del lavoratore, eccedenti l’ordinaria esecuzione della prestazione, tali emolumenti aggiuntivi possono venire defalcati una volta che quei disagi lavorativi vengono meno, senza che ciò comprometta il principio di irriducibilità della retribuzione. In altre parole, la garanzia della irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa. Va tuttavia sottolineato che secondo parte della giurisprudenza il principio di irriducibilità “[…] dettato dall’art. 2103 cod. civ., opera anche in relazione a fattispecie in cui il lavoratore percepisca una retribuzione superiore a quella prevista dal C.C.N.L. rispetto alle mansioni in concreto svolte e rimaste invariate anche nelle modalità del loro espletamento, qualora il rapporto sia regolato anche dal contratto individuale, se più favorevole”. Ciò significa che il datore di lavoro non può, nel corso del rapporto e in assenza di mutamento delle mansioni, modificare unilateralmente la retribuzione migliorativa attribuita al lavoratore. Tale diminuzione va necessariamente pattuita rispettando non solo il principio della retribuzione minima ed adeguata, ma anche osservando le garanzie di cui all’art. 2113 c.c., pena l’eventuale invalidità dell’accordo.
Accordo o annullamento del contratto?
Se ciò appare ragionevole e in linea con la natura del rapporto di lavoro, che sottende sempre un accordo delle parti, ci si chiede allora quali possano essere i rimedi esperibili ove difetti tale accordo: in sintesi come può il datore di lavoro ridurre il trattamento retributivo favorevole precedentemente accordato se il lavoratore non accetta una modifica in peius della retribuzione?
Salve le ipotesi di legittimo recesso per riduzione del personale, la giurisprudenza ritiene che in tal caso il contratto possa essere suscettibile di annullamento parziale, per vizio del consenso, determinato da errore rilevante ai sensi dell’art. 1427 c.c..
Premesso che si tratta di un rimedio conseguibile solo in via giurisdizionale, perché espressione di un diritto potestativo della parte, e conseguentemente non utilmente realizzabile in via amministrativa, e con la consapevolezza che l’istituto è pieno di problematiche teoriche e applicative, si può rilevare in estrema sintesi che l’errore, quale causa di invalidità del negozio, ricorre quando la parte contraente ignora, oppure conosce in modo sbagliato o insufficiente, situazioni determinanti per la stipula o meno del contratto. Si tratta in altri termini di una falsa rappresentazione della realtà, che induce la parte a manifestare la propria volontà in modo errato o diverso da come avrebbe voluto se si fosse stata consapevolezza dell’errore.
All’uopo occorre che l’errore sia essenziale e riconoscibile.
L’essenzialità si misura sulla parte che è caduta in errore (nel caso che occupa il datore di lavoro). Tale requisito ricorre quando il vizio attiene a uno degli elementi di cui all’art. 1429 c.c., il cui difetto, se rilevato, avrebbe indotto la parte a non concludere il contratto.
La riconoscibilità invece concerne l’altra parte del contratto (nel caso di specie il lavoratore). L’errore si reputa riconoscibile quando la parte, con la normale diligenza, era in grado di rilevare la falsa rappresentazione della realtà in cui è in corso l’altra parte contrattuale. In mancanza di riconoscibilità, per il principio di affidamento, il contratto è perfettamente valido.
In sostanza, in assenza di accordo bonario, affinché il datore di lavoro possa superare il principio di irriducibilità della retribuzione, ha l’onere di proporre azione giudiziaria, allegando e provando che il trattamento retributivo più favorevole è stato riconosciuto per vizio del consenso determinato da errore. A tal fine la parte datoriale deve specificare l’oggetto dell’erronea rappresentazione dei fatti con i necessari connotati per renderla rilevante. In difetto di tale dimostrazione non potrà che valere la regola generale della irriducibilità della retribuzione.
Il caso concreto
Gamma S.p.a. riconosce ad alcuni dipendenti dei trattamenti retributivi superiori a quelli previsti dal CCNL, sebbene gli stessi abbiano il medesimo inquadramento contrattuale di altri lavoratori, ai quali invece vengono applicati i minimi tabellari. Alfa rileva la proprietà di Gamma S.p.a. e di conseguenza decide di rivisitare gli emolumenti retributivi favorevoli per equipararli con quelli contrattualmente previsti dal CCNL e riconosciuti a tutti gli altri dipendenti svolgenti le medesime mansioni. A tal fine ha due possibilità:
-
concludere un accordo con i dipendenti rispettando le garanzie di cui all’art. 2113;
-
attivare domanda giurisdizionale per conseguire l’annullamento parziale del contratto nella parte in cui prevede trattamenti retributivi più favorevoli rispetto ai minimi tabellari fissati dal CCNL. In tale ultima ipotesi Gamma S.p.a. è tenuta ad allegare e provare i requisiti dell’errore come vizio del consenso.
NOTE
ii Cass. civ. Sez. Unite, 08/08/2011, n. 17079; Cass. civ. Sez. lavoro, 23/03/2011, n. 6639.
iii Cass. civ. Sez. lavoro, 23/07/2008, n. 20310.
iv Cass. civ. Sez. lavoro, 23/01/2007, n. 1421.
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